NOTTE DI SAN GIOVANNI, tra streghe, demoni e rugiade fecondatrici

Le streghe nelle feste romane del solstizio

Sulla notte di San Giovanni aleggia la presenza inquietante delle streghe e dei demoni che volano nel cielo. Strix chiamavano la strega gli antichi Romani: era un uccello simile al gufo, con la testa grossa, il becco e gli artigli da rapace e le piume chiare: pare siriempisse il gozzo con il sangue dei lattanti che rubava dalle culle, strappandone le viscere. Si chiamava strix per il suo stridere sinistro nella notte fonda. Riferiva Plinio Secondo che le striges erano donne trasformate in uccelli per una magia, o almeno così sosteneva la credenza popolare.

Nel Medioevo le striges assunsero volto e fattezze umane, laide, vecchie e repellenti: si mormorava che partecipassero ai sabba e fornicassero con i demoni; con appropriati incantesimi potevano nuocere non solo al bestiame e ai campi, ma persine ai bambini e talvolta agli adulti.

In questo stuolo di streghe spiccava Erodiade seguita da una scia di signore della notte: la cosiddetta Società di Diana o di Erodiade. Nella leggenda Erodiade veniva confusa con la figlia Salomè che aveva ottenuto da Erode Antipa la testa di Giovanni grazie alla danza dei sette veli. Quando le fu presentato il piatto con la testa del santo, Erodiade-Salomè si pentì della mala azione e disperata lo coprì di lacrime e baci. Ma dalla bocca del santo uscì un vento furioso che spinse la peccatrice nell’aria, dove fu condannata a vagare in eterno.

Il nome di Diana, come la credenza che le streghe fossero esperte di erbe e filtri, denuncia l’origine della «strega» medievale, frutto per tanti aspetti (sebbene non esclusivamente, poiché servi del Distruttore sono sempre esistiti ed esistono) della demonizzazione delle antiche divinità e di chi resisteva all’evangelizzazione continuando a celebrare i riti tradizionali, oppure si convertiva mescolando pratiche pagane a pratiche cristiane; sicché la nuova religione non era se non un involucro che copriva, più o meno consciamente, una fede diversa.

Un ulteriore indizio di questo processo si può cogliere nella pianta dai cui frutti si ricava un liquore tipico della Valle Padana: il nocino. Secondo la tradizione, le donne devono staccare le noci per il liquore quando la drupa è ancora verde, nella notte di San Giovanni: con una falce o una lama di legno, mai di metallo. L’infusione darà un liquore considerato una panacea. Il rito della preparazione del nocino risale ai Celti della Britanma: il che induce a pensare che il noce fosse un albero sacro a quei popoli, usi a celebrare riti solstiziali. Ebbene, proprio un noce, quello di Benevento, era considerato nel Medioevo, come si è già detto, il luogo di convegno di tutte le streghe.

Tuttavia, le presenze inquietanti del solstizio potrebbero essere non soltanto la demonizzazione di divinità precristiane, ma anche del pagano «passaggio dei morti» tipico di ogni periodo critico del calendario.

La metamorfosi delle divinità romane in streghe e demoni suggerisce anche una filiazione parziale della notte romana di San Giovanni, senza escludere successive influenze celtiche, da una festa che si svolgeva nella capitale il 24 giugno, quando ricchi e poveri, schiavi e padroni accorrevano ai due templi trasteverini della dea Fors Fortuna per invocarne la protezione. Poi banchettavano e danzavano fino a sera: «Andate e celebrate lieti, o Quiriti, la dea felice! […] Correte in parte a piedi e in parte su celeri barche» cantava Ovidio descrivendo la scampagnata di là dal Tevere «né poi vi vergogniate di tornare ebbri a casa. La venera la plebe, perché il fondatore si dice che fosse plebeo, e da stato umile fosse giunto al trono». Il fondatore era infatti Servio Tullio che secondo la leggenda, peraltro falsa, sarebbe stato figlio di un’ancella.

Fors Fortuna era la dea della casualità assoluta, non collegata ad alcun ceto, mestiere, professione o arte: era la dea di coloro che non avevano né arte né parte. Ma al 24 giugno veniva festeggiata da tutta la popolazione. Come spiegare questo enigma? In età repubblicana il 24, come ci conferma Plinio, era considerato il solstizio estivo e segnava dunque un momento «critico» dell’anno, un’epoca di rinnovamento. Se paragoniamo la festa in onore di Fors Fortuna ai decembrini Saturnali, possiamo cogliere qualche analogia: come nei Saturnali cadeva il divieto del gioco d’azzardo, così in questa festa estiva tutti i Romani, cui era vietato di onorare Fors Fortuna nel corso dell’anno, potevano festeggiarla per un giorno. Una paredra di Saturno?

Dalla gioiosa festa potrebbe essere derivata l’usanza medievale di mangiare, danzare, giocare e cantare sui prati fra la basilica di San Giovanni in Laterano e Santa Croce in Gerusalemme. Nella notte della vigilia si accendevano grandi fuochi aspettando il passaggio delle streghe; si beveva e si danzava all’aperto o nelle osterie in un’atmosfera di sospensione del quotidiano perché era un tempo di passaggio, e solo il sorgere del sole lo concludeva nel segno di una liberazione.

La rugiada fecondatrice

Accanto al fuoco, che aveva una funzione purificatoria, vi era la rugiada dalle virtù fecondatrici. Le giovani spose, che volevano ottenere molti figli, sollevavano le vesti sedendosi o accoccolandosi sull’erba umida a monte Testaccio, nelle vigne e nei giardini, per un intimo lavacro propiziatorio. Ma anche gli uomini volevano godere delle virtù miracolose della rugiada in luoghi appartati e in compagnia dell’altro sesso, sicché l’atmosfera gioiosa della notte, cui contribuivano anche cibi e vini, favoriva giochi vivaci che attentavano alla pubblica e privata moralità. Il 19 giugno 1753 un editto proibì quelle pratiche, che dovevano essere ben radicate se due anni dopo, il 18 giugno 1755, il cardinale vicario Marco Antonio Colonna ribadiva la disposizione scrivendo: «La Santità di Nostro Signore per impedire gl’inconvenienti, che sotto vano pretesto di prendere la guazza, sogliono commettersi nella notte precedente alla Festa della Natività del glorioso precursore S. Gio. Battista, ci ha comandato coll’Oracolo della sua viva voce di rinnovare il presente Editto altre volte pubblicato, in cui coll’autorità del Nostro Uffizio non solo in questo, ma in ogni altro Anno avvenire espressamente proibiamo a qualsivoglia persona dell’uno e l’altro sesso di portarsi in detta notte fuori delle porte della Città, o in luoghi disabitati, come a monte Testaccio, alle vigne, e giardini sotto qualsivoglia pretesto che possa recar scandalo, o dar motivo di credere ciò farsi in continuazione de’ passati abusi, sotto pena in caso di contravvenzione rispetto agli Uomini di tre tratti di corda da darsegli in pubblico, e di scudi cinquanta, ed altre pene a nostro arbitrio secondo la qualità delle persone, da applicarsi la metà ad usi pii, e l’altra metà per un quarto agli Accusatori, che saranno tenuti segreti, e l’altro quarto agli Esecutori. Rispetto poi alle Donne sotto pene gravi anche corporali a nostro arbitrio. E per togliere affatto ogni occasione ai mentovati disordini si ordina e comanda a tutti gli osti e bettolieri, che nella Vigilia di detto santo debbano tenere serrate le loro osterie, e bettole dalle tre ore della notte alle dieci del giorno seguente [ovvero, secondo il conteggio odierno delle ore, dalle 21 alle 4] sotto le medesime pene, nelle quali incorreranno anche le persone che saranno trovate in detti luoghi ancorché stessero a porte chiuse. Avvertendo finalmente, che contro i trasgressori tanto nel primo che nel secondo caso si procederà anche per inquisizione, e in ogni altro modo alla cattura, e all’esecuzione delle pene sopradette».

Ma proibizioni e minacce non sradicarono queste usanze se erano ancora documentate nell’Ottocento. Furono i governanti del Regno d’Italia a risolvere drasticamente il problema con una repressione sistematica grazie a funzionari meno indulgenti di quelli papalini: nel 1872, a due anni dalla presa di Roma, vietarono la festa notturna all’aperto

perché la sua atmosfera carnascialesca era poco consona, secondo loro, alla dignità della capitale: tuttavia non chiusero, bontà loro, le osterie. Delle antiche usanze rimase soprattutto il gusto di suonare campanacci, di schiamazzare e di giocare alla morrà, mangiando le tradizionali lumache le cui corna, si diceva, erano il simbolo della discordia: perciò seppellendole nello stomaco si cancellavano rancori e odi. E un altro proverbio assicurava che per ogni cornetto di lumaca una sventura era scongiurata. Questa funzione benaugurante si può riallacciare al simbolismo dell’animale. Già si è spiegato che il Cancro, all’inizio del quale cade il solstizio estivo, è un segno d’acqua e casa della luna. La lumaca, a sua volta, è un simbolo lunare, che indica la rigenerazione periodica con i suoi cornetti che mostra e ritira alternativamente, così come la luna appare e scompare nel suo ciclo perenne di morte e rinascita. Sicché la lumaca è simbolo di movimento nella permanenza e di fertilità, dunque animale omologo alla porta solstiziale.

La festa di San Giovanni veniva addomesticata dal nuovo regime laico, che concedeva anche sfilate di carri allegorici, gare di giochi popolari e di poesia, e addirittura un concorso musicale sulla canzonetta romanesca, inaugurato nel 1891 in un’osteria fuori porta. Oggi della festa di San Giovanni a Roma non resta più nulla sebbene si sia tentato ultimamente di resuscitarla: ma, come per il Carnevale, la nuova notte romana pare una cartolina sbiadita di quella antica. D’altronde, non vi sono più i prati per i bagni di rugiada sotto la luna, e se per avventura qualcuno si azzardasse ad accendere un falò sulla piazzadi San Giovanni verrebbe arrestato. Anche nelle altre città italiane poco è rimasto, come a Torino, dove le maschere tradizionali, Gianduia e Giacometta, sfilano il giorno dopo (per non confondere sacro e profano) su un carro che viene poi benedetto sul sagrato del Duomo, dedicato al santo. Fiaccolate, falò e spettacoli folkloristici concludono i festeggiamenti, incanalati nella più innocua ritualità.

Da CALENDARIO, di Alfredo Cattabiani – Mondadori

FOTO: Rete

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