VERGA e il vicolo stretto della non storia

Giovanni Verga

Sarà vero che il Decameron di Boccaccio andrebbe letto come un libro velato di aria napoletana più che toscana, un racconto di storie latamente mediterranee, con giardini di arance e odore di mare (lo sosteneva Giuseppe Billanovich durante le lezioni all’Università Cattolica); sarà anche vero che parte di queste intenzioni favolistiche siano transitate, tre secoli più tardi, nel Pentamerone (1634) di Giambattista Basile (un libro di miracoli narrativi, una specie di Le mille e una notte strappata dalle mani di Esopo e Fedro), tuttavia è un dato ormai consolidato che la narrativa di tradizione meridionale sia entrata nel canone della modernità riconoscendo in Giovanni Verga il proprio capostipite. Tale paternità ha conferito una precisa connotazione geografica: il primato della Sicilia sulle altre regioni del Sud, un’egemonia che in termini numerici si è manifestata nella lunghissima schiera di nomi (Capuana, De Roberto, Pirandello, Brancati, Vittorini, Sciascia, Bonaviri, Tornasi di Lampedusa, D’Arrigo, Consolo, Bufalino, Camilleri), i quali potrebbero addirittura costituire un continente a sé, una letteratura nella letteratura, che si situa ben al di là della condizione meridionale.

Sia pure con esiti diversi fra scrittore e scrittore, la leadership siciliana ha avuto modo di manifestarsi in termini ideologici, promuovendo una visione corrosiva del rapporto tra coscienza individuale e destino della nazione. Da qui è scaturita una serie di topoi letterari, quali il sentimento di lontananza dalle mappe della Storia, il dramma di sentirsi inappropriati o esclusi (per non dire autoesclusi) dalle rotte del tempo, l’inseguire progetti impossibili. In un saggio del 1969, destinato poi a La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1970), Sciascia usò il termine sicilitudine (parallelo al più comune sicilianità) per racchiudere questa sensazione di inappagata perifericità, per coniugare la condizione di isola con i concetti di solitudine, di assenza e di silenzio.

Non ce dubbio che attraverso le più importanti opere concepite a Milano (IMalavoglia e Mastro-don Gesualdo) Verga abbia tracciato una traiettoria ben precisa: non una narrativa che indugiasse sul passato in chiave antropologica e morale (come aveva fatto pochi decenni prima Manzoni), ma una narrativa che guardasse ai fatti contemporanei. Ne sarebbe scaturito un resoconto più che un racconto d’invenzione, commisto di sfumature sociologiche, ai limiti della denuncia sociale e politica, impostato sulla negazione di qualsiasi idea di progresso. Se da Manzoni la Storia veniva osservata come luogo del riscatto per gli individui (Ipromessi sposi, così come nel 1985 teorizzava Giorgio Bàrberi Squarotti, era un romanzo esemplarmente “contro la Storia”, un teorema che ne capovolgeva gli esiti), per Verga non c’è speranza di redenzione, non esiste prova che essa, la Storia, produca migliorie e modifichi le sorti degli uomini.

Riconoscendosi nel solco del padre fondatore, la successiva narrativa del Mezzogiorno ha infilato il vicolo stretto e pericoloso della non-storia (o della a-storia): una traiettoria che ha determinato la sconfessione tanto dell’idea hegeliana (per cui la Storia è evoluzione dello Spirito) quanto della nozione vichiana che  leggeva la Storia come un andirivieni tra epoche compiutamente razionali ed età barbare. Con Verga, insomma, la coscienza del nuovo ha assunto la fisionomia di un miraggio cristallizzato, un’operazione inutile e dannosa, un azzardo che poteva costare il fallimento di un singolo, di una famiglia, di un’intera comunità. Da una visione marcatamente antievolutiva non poteva non discendere un’idea di società immobile, mancante di qualsiasi sviluppo economico e in cui spesso il senso del divenire rimaneva in uno stato di sospensione.

Fosse prevalsa la linea tracciata da Boccaccio e Basile, avremmo avuto probabilmente una tipologia di racconto declinata su forme e strutture diverse, orientata a esaltare sia i caratteri della Napoli angioina (che con Boccaccio conferiva centralità al ruolo dei mercanti e degli artigiani), sia i moduli arabo-napoletani, imperniati sul fantastico, cioè secondo l’immaginario de Le mille e una notte. Ha avuto purtroppo il sopravvento la mentalità conservativa dei dominatori spagnoli (meglio sarebbe dire la presunzione aragonese di gestire un potere politico in termini suppletivi) che negli esiti letterari ha provocato il fallimento di qualsiasi spinta al progresso, ratificando l’assenza della borghesia sia nel contesto di una nobiltà avviata alla decadenza, come ne I Viceré (1894) di De Roberto e ne II Gattopardo (1958) di Tornasi di Lampedusa, che nel dramma di una generazione delusa dagli eventi patriottici, come ne / vecchi e i giovani (1913) di Pirandello.

Da LA STORIA SENZA REDENZIONE, di Giuseppe Lupo – Rubbettino

FOTO: Rete

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