STORIE CALABRESI – I tre fichi di san Francesco

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Nella seconda metà del ‘400, S. Francesco di Paola soggiornò per circa due anni a Corigliano per erigervi un eremo della sua congregazione. Il terreno su cui edificare il convento lo donò un possidente, il quale, però, non potè offrire anche il materiale per la costruzione; ma S. Francesco, sorridendo amabilmente com’era solito fare quando era sicuro del fatto suo, lo ringraziò per aver donato oltre al terreno pure le pietre per la fabbrica.

Difatti, durante gli scavi per le fondazioni, venne alla luce «[…] un gran pezzo di muraglia antica […]» da cui — visto che al tempo non esisteva una soprintendenza che impedisse il riutilizzo di materiale archeologico e succedeva anche che uno, con i resti d’un tempio si ci costruisse la casa o la stalla, com’è capitato, ad esempio, nella zona del Lao -, si ricavarono massi sufficienti per le stesse fondazioni e per buona parte dei muri esterni.

Altro prodigio S. Francesco lo fece per rifornire il convento d’acqua, che, allora, era già scarsa per le strette necessità del grosso abitato. Egli salì sulla montagna, trovò una sorgente, fece un semplice segno e l’acqua prese docilmente a seguirlo lungo il solco che, camminando, egli tracciava con la punta del bastone; e ciò per ben quattro miglia, lungo valloni e dirupi, fino al convento, e pure, fino alle tre piazze del paese che, da allora, non ebbe più a soffrire per la penuria d’acqua.

Circa trecento volontari d’ogni età lavorarono alla costruzione dell’eremo, e S. Francesco dava loro da mangiare facendo diventare assai il poco che riusciva a racimolare.

Un giorno egli aveva solo un pugno di fichi e, come se ne avesse avuto chissà quanti sacchi, ne diede due ad ogni lavorante, mentre a un suo devotissimo terziario, ne mise in mano tre, raccomandandogli, però, di conservarli sempre «interi ed uniti». Cosa che il buon uomo fece, ma alla sua morte un discendente ne diede uno a un frate minimo: quella notte stessa un violento incendio gli divorò la casa e nei giorni successivi egli vide perire tutto il suo bestiame per i malanni più misteriosi, sì che si ridusse in pezzentìa. Ma non finì qui: il fico incautamente regalato al frate minimo passò di mano in mano con puntuale scansione di tragedie e disgrazie, finché arrivò in possesso dei nobili Solazzi Castriota, che in poco tempo s’estinsero; i loro beni, fico compreso, furono ereditati dalla duchessa di Bovino, la quale, per speculazioni sbagliate e per le mani bucate, andò incontro a un clamoroso fallimento e si trasferì altrove. Da quel momento il letale frutto sparì dalla circolazione e non se ne seppe più nulla, e, probabilmente, qualcuno se l’era mangiato a scanso d’ulteriori disgrazie.

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Da “Guida alla Calabria misteriosa”, di Giulio Palange – Rubbettino

Foto: Rete

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