Atum-Ra, colui che con la sua voce vincerà il silenzio

Shu separa Nut e Geb, dettaglio del sarcofago di Nespawershepi 984 a.C.

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ATUM-RA

Eliopoli è oggi un sobborgo del Cairo e corrisponde all’attuale Tell Hisn. A questa vicinanza si deve l’assenza pressoché totale di monumenti paragonabili, per complessità e maestosità, a quelli visitabili altrove.

Il fatto che la zona sia intensivamente coltivata è un grosso ostacolo al progredire degli scavi, inoltre la presenza a poca distanza della capitale spiega come la maggior parte dei materiali dei templi sia stata asportata e altrimenti utilizzata.

La città, centro d’elezione del culto del dio-Sole Ra e delle divinità che vi si connettono, oltre che sede di mercati, era nell’antichità ricca di un complesso architettonico di enormi proporzioni. Ne sopravvivono pochi resti: obelischi, statue, tavole votive, ma non si è ancora potuto stabilire se ciò che è venuto alla luce costituisce un complesso a sé o piuttosto il semplice annesso dell’edificio culminante sugli altri, il tempio del Sole.

Dopo queste brevi considerazioni d’ordine geografico e archeologico, diamo voce al mito.

Nun, dio dell’oceano primordiale, regge la barca del dio sole

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Al principio sono le acque di Nun, il caos nelle cui profondità giace addormentato lo spirito del creatore.

Gli Egizi non identificano in esse un principio negativo: si tratta di una sorta di brodo primordiale in cui galleggiano, ancora informi, i germi della vita. Nun è il disordine del non-creato che si oppone all’ordine del creato; la sua esistenza non viene meno dopo la creazione quando «si estende sotto ogni luogo», contropartita del mondo organizzato pronta a riespandersi qualora l’equilibrio del cosmo venga meno. Di qui emergerà la collinetta sabbiosa su cui, prendendo l’aspetto di una fenice, si poserà il creatore, Atum-Ra, il Sole, l’essere compiuto per eccellenza, colui che con la sua voce vincerà il silenzio.

Facile è in questo caso il riferimento paesaggistico: la collinetta di sabbia altro non è se non l’Egitto stesso, così come appare al defluire delle acque del fiume dopo un’inondazione; la nascita del sole è ciò che agli uomini della valle del Nilo garantisce raccolti abbondanti e, dunque, sicurezza di vita.

Shu, Nut e Geb

Più originale il seguito della storia che racconta come, per necessità poiché solo, il dio ricorse all’autoerotismo per assicurarsi una discendenza: «Tenendo

il fallo in pugno ed eiaculando, diede vita ai gemelli Shu e Tefnut». Una versione meno esplicita sostiene che i figli del Sole nacquero da un suo sputo, o starnuto: se ne deduce che i liquidi organici, seme o saliva, erano identificati come la sede della capacità di generare del dio. «Tu sputasti ciò che fu Shu, tu sputasti fuori ciò che fu Tefnut. Li circondasti delle tue braccia come braccia di un ka, perché il tuo ka era in loro.» Più avanti diremo del ka; per ora accontentiamoci di vederlo come una parte essenziale di Atum-Ra che, da lui, si trasmette alla discendenza.

Chi sono Shu e Tefnut? Sono l’aria e l’umidità dalla cui unione nasce un’altra coppia, Nut, il Cielo, e Geb, la Terra. La prima è donna, il secondo è uomo e, nell’identificare la terra in un maschio e non viceversa, come vuole per esempio la tradizione indoeuropea, la cosmologia egizia è del tutto originale.

Originale è anche il ruolo di queste divinità nella costruzione della topografia dell’universo. Si dice che l’amore di Nut per il fratello fosse tale che i due trascorrevano la maggior parte del loro tempo abbracciati e che ciò costituisse un problema, poiché tra cielo e terra non c’era spazio sufficiente affinché la vita potesse prosperare. Allora Atum-Ra dà incarico al loro padre Shu di intervenire. Questi obbedisce, calpesta Geb e solleva sulle palme delle proprie mani Nut che, da questo momento, è raffigurata piegata ad arco sopra lo sposo, con i piedi e le dita sul suolo, mentre la luna, il sole e le stelle ne ornano il corpo. Si legge nei Testi delle Piramidi: «Le braccia di Shu sono sotto il cielo perché lo possa reggere».

Osiride, a sinistra, ed Atum

Vedremo più avanti come Nut, a quella data, già portasse nel grembo la stirpe terrestre, il primogenito Osiride, il fratello e le due sorelle. Insieme con il progenitori e il primo creatore, saranno parte dell’Enneade, parola greca che sta a indicare un gruppo di nove divinità, i cui ultimi nati, introducendo il regno degli umani, portano il mito nella storia. Ma non anticipiamo i tempi e tentiamo piuttosto di approfondire i tratti più importanti della cosmologia di Eliopoli.

Si impone innanzi tutto l’attenzione verso il numero e il suo possibile significato. Le divinità generate da Atum-Ra sono doppie, raggruppate in coppie ispirate a complicate corrispondenze: sdoppiamento, funzioni opposte o convergenti, opposizione geografica. Altrettanto chiaro è il riferimento al numero quattro: quattro sono i figli del Cielo e della Terra, ai quali spetta il compito di mettere in collegamento il mito della creazione con quello della regalità. C’è chi ha osservato che quattro è il numero dei punti cardinali a cui corrispondevano le divisioni del giorno, ed è anche il numero delle parti affidate a ciascun pianeta, parti nelle quali si divideva l’eclittica. Il nove invece è il risultato della moltiplicazione del tre per se stesso e tre è il numero degli astri che reggono lo zodiaco, il sole, la luna e Isthar, la stella del mattino e della sera. Il nove è il plurale dei plurali, la traduzione simbolica dell’unità che comprende il molteplice, gli esseri che da sé Atum-Ra ha generato, diretta emanazione del suo io. Sembra se ne possa concludere che la ricerca della magia del numero fosse un modo per creare un ordine rassicurante e razionale dell’immaginazione, per dar vita a un equilibrio nel quale, in definitiva, il numero in sé conta poco, visto che fonti diverse spesso riportano disinvoltamente clamorose discordanze persine tra il numero degli dei di un gruppo e i loro nomi.

Centrale è infine il ruolo che la dea-Cielo Nut assume nell’iconografia egizia, certamente la prescelta nella raffigurazione pittorica. Nut è il limite dell’universo al di là del quale è l’assenza di vita; il viaggio del faraone, dopo morto, si compie sotto il suo corpo arcuato; alla fine del suo percorso diurno il sole è per così dire inghiottito dalla dea e l’attraversa per poi rinascere all’alba tra una nebbia rossastra che segna il passaggio all’orizzonte orientale. È questa la frontiera fra il mondo sensibile e quello celeste, il punto in cui la terra e il cielo si congiungono, in cui gli uomini e gli dei sono più vicini.

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Da “MITI DELL’ANTICO EGITTO” – Demetra

Foto: Rete

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