Demotivazione scolastica ed educazione emotiva

 

 

Alla base della demotivazione scolastica esiste quella tendenza all’aggettivazione che porta i medici a considerare i pazienti solo come organismi, che porta nel mondo del lavoro a considerare gli uomini in base al solo criterio dell’efficienza, risolvendo la loro identità nell’efficacia della loro prestazione, che porta i professori a giudicare i loro studenti in base al profitto, termine che il mondo della scuola ha mutuato dal mondo economico, risolvendo l’educazione in un puro fatto quantitativo dove a sommarsi sono nozioni e voti.

Siccome la quantità è misurabile con il calcolo, dalla scuola vengono espulse tutte quelle dimensioni che sfuggono alla calcolabilità, quindi: creatività, emozioni, identificazioni, proiezioni, desideri, piaceri, dolori che costellano la crescita giovanile e di cui la scuola non tiene il minimo conto. Ciò spiega perché a scuola vanno bene e prendono bei voti quei ragazzi che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche.

Libera da questi inconvenienti, la mente può disporsi più agevolmente a immagazzinare tutte quelle nozioni che si ordinano con rigore e precisione; più sono disanimate, meno coinvolgono l’anima, all’insegna di quel risparmio emotivo che rende l’incasellamento delle informazioni molto più agevole.

Espulsa dalla scuola l’educazione emotiva, l’emozione vaga senza contenuti a cui applicarsi, ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che sempre accompagnano ciò che non può esprimersi, e tentazioni d’abbandono in quelle derive di cui il mondo della discoteca, dell’alcol e della droga sono solo esempi neppure troppo estremi.

Se c’è da dar ragione ad Aristotele che distingue tra “cause prime e cause seconde”, verrebbe da chiedersi se prima di quelle cause seconde che si chiamano sesso, alcol e droga non ci sia come causa prima del disagio giovanile quel vuoto emotivo ed esistenziale che la scuola crea intorno agli studenti, ai quali offre una cultura così disanimata, per cui alla fine è indifferente al giovane non coinvolto studiare i logaritmi o i Sepolcri del Foscolo.

Eppure, diceva Paolo di Tarso: “Non si entra nella verità senza l’amore (Non intratur in ventate nisi per charitatem)”. Nelle nostre scuole l’amore si risolve nella miseria delle simpatie e delle antipatie. L’identità degli studenti bravi si costruisce sulle disfatte di quelli meno bravi, o, come si dice nel gergo scolastico, “insufficienti”. Le valutazioni avvengono sulla base di impressioni soggettive, dove le proiezioni sfuse di studenti e professori si mescolano e alla fine approdano a un giudizio in cui è difficile riconoscersi.

UMBERTO GALIMBERTI

Da “L’ospite inquietante”  –  Feltrinelli

Foto: Rete

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