PANE E CARBONE – Il Belgio, Marcinelle e lavoratori merce

 

 

 

Imparate una lingua e andate all’estero[1]. Anche senza questa ben nota raccomandazione di Alcide De Gasperi, la ripresa dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra si sarebbe imposta come una «necessità vitale» per un paese uscito dalla guerra sconfitto ed economicamente in ginocchio. La prima grande ondata migratoria dell’Italia contemporanea – la cosiddetta «grande emigrazione» (1880-1930) – si era svolta al di fuori di un’organizzazione istituzionalizzata ed era stata contrassegnata, almeno nella prima fase, da una certa libertà di movimento. I flussi migratori che riprendono dopo la fine del secondo conflitto avvengono invece in un contesto fortemente dirigista e in un quadro di accordi bilaterali che tendono ad una rigida pianificazione degli spostamenti della forza lavoro. È lo stesso governo italiano che nel 1948, nel presentare il programma economico di ricostruzione secondo gli obiettivi del Piano Marshall, decide di puntare sull’esportazione di manodopera come misura di contenimento della disoccupazione, allora molto alta, e come ammortizzatore della conflittualità sociale del paese [Franzina 2001, 403; Colucci 2008, 231]. Il governo, e segnatamente l’esecutivo democristiano a guida De Gasperi, considerava l’emigrazione come la principale leva economica della ricostruzione, come si evince dall’intervento conclusivo tenuto dallo stesso De Gasperi al III° Congresso nazionale della DC nel giugno del 1949: in questa assemblea lo statista si spinge a dire di essere pronto a rinunciare agli aiuti degli americani in cambio della  libertà di far emigrare i disoccupati italiani, perché i soldi delle rimesse sarebbero arrivati subito, mentre i piani di sviluppo del Piano Marshall avrebbero dato dei benefici economici in tempi molto più lunghi. L’allora Primo ministro «auspica a questo fine una collaborazione internazionale che apra ai lavoratori italiani i mercati del lavoro esteri» [Morandi 2011, 46]. All’esubero di manodopera italiana corrispondeva una carenza di lavoratori nei paesi di immigrazione: proprio su questo bisogno di braccia a basso costo da parte dei paesi d’oltralpe poggia la convinzione dei governi italiani di poter esportare la forza lavoro inutilizzata in patria laddove maggiore era la domanda, in Svizzera, Francia, Gran Bretagna, e nel paese che qui ci interessa, il Belgio.

 

Come quello verso le altre nazioni sopra menzionate, anche il movimento di lavoratori verso il Belgio fu una migrazione «assistita» le cui condizioni vengono stabilite da accordi bilaterali tra l’Italia e il paese di destinazione.

 

L’ACCORDO MINATORI – CARBONE

Il trattato con il Belgio, siglato nel giugno del 1946, prevedeva che i lavoratori italiani venissero destinati al lavoro nelle miniere di carbone e assicurava all’Italia una determinata quantità di carbone per ogni minatore inviato in Belgio. Questo aspetto dell’accordo «minatori vs carbone» – il trattato parla testualmente di «accordo minatori-carbone» – è fra i più controversi perché, equiparando i lavoratori ad una merce, scambiata con altra merce, ha indotto molti minatori italiani a definirsi «deportati economici, venduti dall’Italia per qualche sacco di carbone» [Franzina 2002, 168]. Oltre a questa questione il trattato si occupava di tutti gli altri aspetti del reclutamento e regolava le procedure di immigrazione fin nel dettaglio. Tanto da parte italiana quanto da parte delle autorità belghe si preferiva tacere invece sulle condizioni di vita che attendevano gli operai italiani destinati all’industria estrattiva del Belgio, le cui strutture erano ormai irrimediabilmente invecchiate.

 

LA CRISI DELL’INDUSTRIA MINERARIA BELGA E LA «BATTAGLIA DEL CARBONE»

All’indomani della seconda guerra mondiale l’apparato minerario della Vallonia (la regione industriale del Belgio meridionale, dove avevano sede i principali bacini carboniferi del paese), caratterizzato da strutture vecchie e pericolose e non in grado di reggere la concorrenza dei paesi circostanti, era ormai in declino e poteva sostenersi solo grazie agli aiuti di Stato [Cumoli 2009, 3].

 

Nonostante la loro irreversibile crisi, gli impianti estrattivi del Belgio si stavano preparando ad uno sforzo produttivo senza precedenti. Almeno due fattori spiegano questa apparente contraddizione: l’aumento della domanda di carbone per sostenere i bisogni della ricostruzione postbellica, in Belgio e in altri paesi europei, e la scelta del governo belga di tenere basso il prezzo di vendita del minerale, stimolandone ulteriormente la domanda. Così, sotto la spinta di una richiesta di combustibile in aumento, gli industriali del carbone avevano preferito rinviare la modernizzazione e il rinnovamento delle miniere, mantenendo in attività i vecchi impianti, sebbene logori e arretrati.

 

Nonostante la «battaglia del carbone», lanciata nel 1945 dal Primo ministro belga con l’intento di convincere i suoi concittadini a tornare in miniera, i belgi non erano più disposti a scendere nelle viscere della terra e si erano rivolti verso lavori meno duri e pericolosi.

 

La carenza di manodopera autoctona aveva spinto il governo belga a tentare diverse soluzioni: scartata l’ipotesi di utilizzare i prigionieri di guerra tedeschi, ci si rivolse al reclutamento di lavoratori da paesi stranieri, in primo luogo dall’Italia. Con il nostro paese venne firmato il già ricordato accordo bilaterale del 1946, anno in cui si apre ufficialmente l’emigrazione italiana verso il Belgio nel dopoguerra.

 

IL RECLUTAMENTO DEGLI ASPIRANTI MINATORI

Le pratiche del reclutamento esplicitamente previste nell’accordo non sono diverse da quelle dei protocolli firmati con altri paesi: il fabbisogno di manodopera italiana nell’industria mineraria belga era fissato in 50.000 lavoratori (da trasferire in Belgio in numero di 2.000 alla settimana), con un’età massima di 35 anni e in buono stato di salute. Ufficialmente la «filiera» del reclutamento era la seguente: i datori di lavoro belgi inviavano le offerte di impiego al Ministero del lavoro italiano che le trasmetteva agli uffici di collocamento dei comuni. Qui le offerte di lavoro erano pubblicizzate da allettanti manifesti, affissi sulle piazze e nei bar di tutta la Penisola, che invitavano a partire per le miniere del Belgio e prospettavano al futuro emigrante favorevoli condizioni di lavoro e di alloggio.  Una volta individuato il candidato, iniziava la trafila delle visite mediche: la prima presso l’Ufficio sanitario del comune di residenza, da dove i futuri migranti erano poi inviati presso l’Ufficio provinciale del lavoro per un’ulteriore visita di controllo. I candidati ritenuti idonei erano trasferiti al Centro per l’emigrazione in Belgio di Milano, situato nei locali di un’ex caserma a Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti alla selezione definitiva da parte della Commissione belga per l’immigrazione e al controllo incrociato della polizia belga e italiana. Proprio quest’ultima selezione rappresentava una questione particolarmente delicata, che evidenzia lo squilibrio su cui erano costruiti gli accordi bilaterali, a svantaggio del paese d’emigrazione e dei suoi lavoratori. Se teoricamente la polizia belga non poteva operare nessuna selezione tra le file dei candidati, nella realtà molti braccianti che avevano partecipato alle lotte agrarie e all’occupazione delle terre vennero respinti come «indesiderabili» [Franzina 2002, 166]; allo stesso modo, almeno fino a una certa data, la Fédéchar (Federazione delle compagnie belghe del carbone) continuò a preferire i lavoratori dell’Italia settentrionale, considerati, secondo triti stereotipi, «più assidui, più laboriosi, più disciplinati» rispetto ai colleghi meridionali [Cumoli 2009, 10]. Dato che queste pratiche di selezione non erano previste dagli accordi ed erano sopportate dalle autorità italiane «a denti stretti per non mettere a repentaglio tutta l’emigrazione» [Morandi 2011, 57], a questo reclutamento «istituzionale» si affiancò presto un sistema parallelo di ingaggio, organizzato direttamente dalle singole miniere. Le compagnie carbonifere reclutavano la forza lavoro a loro più congeniale – candidati politicamente inoffensivi ed originari di regioni precise – direttamente nei comuni, attraverso il filtro delle reti parrocchiali e una rete di trafficanti di migranti. Quale che fosse stato il metodo di ingaggio, una volta superata la selezione al Centro di emigrazione di Milano, gli emigranti erano accompagnati sui treni diretti in Belgio, alla stazione di Namur, nel cuore dei bacini carboniferi del paese. Una volta arrivati alla miniera loro destinata, i nuovi immigrati erano sottoposti ad un ultimo esame da parte del responsabile medico della miniera e, se dichiarati inadatti al lavoro sotterraneo, venivano destinati ad altri settori o, più spesso, rimpatriati. Agli idonei veniva invece rilasciato un permesso di lavoro – della durata di un anno, rinnovabile – che vincolava il lavoratore a cinque anni di attività ininterrotta nel settore minerario, pena l’espulsione.

 

LE DIFFICILI CONDIZIONI DI VITA E DI LAVORO DEI MINATORI

Se le traversie per essere assunti nei distretti carboniferi erano lunghe e accidentate, non meno traumatico era per molti lavoratori l’impatto con la miniera, con il «lavoro di fondo» talvolta a più di mille metri di profondità. L’inesperienza, la mancanza di un periodo di formazione e l’ignoranza delle reali condizioni in cui avrebbero dovuto lavorare rendevano particolarmente traumatica la prima discesa al fondo, tanto che non erano pochi quelli che si rifiutavano di scendere[2]. Anche il salario era nettamente inferiore a quello sperato e promesso nell’accordo bilaterale, perché una parte era legata al lavoro a cottimo, il che tra l’altro, costringendo i minatori a risparmiare tempo, li spingeva a tralasciare le procedure di sicurezza e ad esporsi al rischio di incidenti[3]. La mancata osservanza di quanto previsto e promesso dagli accordi bilaterali fu all’origine di un numero molto alto di rimpatri [De Clementi 2010, 155].

 

Anche per quanto riguarda le condizioni di vita dei lavoratori, le promesse di «convenienti alloggi» propagandate dagli accordi rimasero deluse: gli immigrati vennero ospitati nelle baracche di ex campi di concentramento, prive di elettricità e con i servizi igienici all’aperto.

Marcinelle

 

LA TRAGEDIA DI MARCINELLE, UNA MINIERA OBSOLETA E PERICOLOSA

Le difficili condizioni di lavoro e l’assenza di adeguate misure di sicurezza provocarono moltissimi incidenti e veri e propri disastri. Il più grave avvenne nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina belga di Marcinelle. Come gran parte delle miniere della Vallonia, anche quella di Marcinelle presentava strutture vecchie e malandate, tanto che già dagli anni Venti si discuteva di una possibile chiusura del sito. L’aumento della domanda di carbone e l’arrivo di manodopera straniera a basso costo consigliarono agli industriali di sfruttare al massimo gli impianti, rinviando ad altro tempo il loro ammodernamento e la loro messa in sicurezza. All’epoca dell’incidente le armature del Bois du Cazier erano ancora in legno, i cavi elettrici erano collocati in punti pericolosi, mancavano i mezzi estintori e non esistevano né vie di fuga né porte stagne.

 

In questa struttura obsoleta l’incendio, scoppiato l’8 agosto 1956, divampò inarrestabile e non lasciò scampo: morirono 262 operai di dodici nazionalità, tra cui 136 italiani. La tragedia di Marcinelle segnò la fine dell’emigrazione ufficiale dall’Italia e le potenti società minerarie belghe rivolsero ad altri la loro offerta di «condizioni particolarmente vantaggiose», spingendo il governo a stipulare accordi con paesi economicamente ancora più deboli del nostro, la Spagna, la Grecia, il Marocco, la Turchia.

 

LO STILLICIDIO DI INCIDENTI MORTALI E IL RISCHIO SILICOSI

La catastrofe di Marcinelle fu di dimensioni eccezionali, ma gli incidenti mortali erano assai frequenti nell’ambiente delle miniere: si calcola che prima di Marcinelle, nel decennio 1946-1956, fossero già morti in Belgio ben 520 lavoratori italiani e questa lunga sequela di morti aveva reso ben consapevoli i minatori della pericolosità del loro lavoro [Colucci 2008, 12]. Ben pochi invece furono coscienti che respirare per anni l’aria intrisa di polvere di carbone esponeva al rischio di contrarre la silicosi, una malattia professionale particolarmente grave che può rimanere latente anche per molto tempo e dalla prognosi spesso infausta [Franzina 2002, 166, 169].

 

MACARONÌ, UNO STEREOTIPO SUGLI IMMIGRATI ITALIANI

Non mancò da parte dell’opinione pubblica belga un certo disprezzo nei confronti degli italiani, a cui fu inflitta l’etichetta dispregiativa di macaronì (così come, qualche decennio dopo, agli immigrati italiani nei paesi di lingua tedesca fu attribuita quella di Spaghettifresser). Questo preconcetto nei confronti dell’emigrazione italiana venne parzialmente superato dopo l’8 agosto del 1956, giorno della strage di Marcinelle: in una tragedia nella quale famiglie italiane e belghe si trovarono accomunate dallo stesso lutto, ci si rese improvvisamente conto che lo sviluppo economico di un intero paese poggiava anche sul lavoro di moltissimi italiani, veri e propri «schiavi del carbone».

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Di Giuseppe Cipriani

Fonte: http://www.novecento.org/didattica-in-classe/pane-e-carbone-lemigrazione-italiana-in-belgio-nel-decennio-1946-1956-3453/#:~:text=L’accordo%20minatori%20%E2%80%93%20carbone,ogni%20minatore%20inviato%20in%20Belgio.

Foto: Rete

 

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