L’aldilà nell’antica Roma

Si sarà notato che in tutto ciò è curiosamente assente una preoccupazione: quella dell’aldilà, dell’immortalità dell’anima. Non ci se ne curava molto più di quel che non faccia la maggior parte dei nostri contemporanei. La setta epicurea non ci credeva, la stoica ci credeva poco, e la religione non ne faceva gran caso: le credenze sull’aldilà costituivano un dominio a parte. L’opinione più diffusa, anche fra il popolo, era che la morte fosse un nulla, un sonno eterno, e si andava ripetendo che l’idea di una vaga sopravvivenza delle Ombre era solo una favola. Esistevano numerose speculazioni che parlavano nel modo più dettagliato della sopravvivenza dell’anima e del suo destino nell’aldilà, ma esse rimanevano legate singolarmente a piccole sette; nessuna dottrina di generale risonanza insegnava che ci fosse nella morte nient’altro che il cadavere. In mancanza di una dottrina comune, non si sa cosa pensare e quindi non si suppone e non si crede nulla.

In compenso i riti funebri e l’arte relativa alle tombe moltiplicavano affermazioni di ogni specie adatte a limitare l’angoscia che accompagna la previsione della morte; senza crederci alla lettera se ne apprezzava l’intenzione consolatrice. Un sarcofago trovato a Simpelveld, del tutto scolpito all’interno, è un vero e proprio bozzetto di interno in cui la defunta si riposa, appoggiata al letto. Questo significa far proseguire la metafora al di là del punto in cui le Parche hanno reciso il filo: la tomba è l’eterna dimora in cui tutto si prolunga quando tutto è cessato e dove il niente assume le apparenze consolatrici di una monotona identità. All’esterno di molti sarcofagi di bambini un putto addormentato rappresenta qualcosa che sta tra il sonno e la morte. Su numerose tombe l’immagine di una nave o di un viaggiatore a cavallo o in carrozza non illustra un qualche viaggio nell’aldilà, ma quel viaggio che è questa vita; il porto della morte o la pietra miliare del trapasso ne sono il termine naturale. Idea consolante, questa, che la morte sia il riposo dopo un lungo viaggio; idea ispirata a rassegnazione, che la vita non sia che un breve cammino. Su altri sarcofagi è paragonata alle corse nel Circo: i carri faranno sette brevi giri e poi spariranno.

I Romani avevano la loro festa dei morti, dal 13 al 21 febbraio, in cui portavano offerte sulle sepolture dei loro parenti, ma non credevano che i morti se ne cibassero più di quanto noi non mettiamo fiori sulle tombe perché i nostri morti vengano a guardarli e a respirarne il profumo. Nei paesi greci per un pezzo si erano messe nelle tombe delle figurine di terra cotta (delle «tanagras», come si dice) che rappresentavano Amori, Vittorie, Sirene; la religione comune parlava pochissimo di questi geni funebri: si erano dunque elaborate delle credenze particolari relative all’elemento funerario. Distinte dalla generalità delle credenze esse dovevano apparire alla mente, in assenza di un insegnamento più consistente, più come un’affermazione di circostanza che come qualcosa di evidente; in epoca imperiale queste credenze sembrano dimenticate: nelle tombe greche, come in quelle romane non ci sono più che piccoli oggetti offerti in omaggio, lampade, cristalli, fiale di profumo.

Sarcofago con scena bacchica

Le idee consolanti sull’aldilà venivano dal desiderio di credere e non dall’autorità di una religione consolidata; la coerenza dogmatica, pertanto, era loro estranea. Accade, osservava Rohde, che uno stesso epitaffio affermi contemporaneamente due verità: una sublime speranza e una perfetta incredulità. A ciò, per chi voglia risalire dalle immagini alle mentalità di un tempo, si aggiunge un’altra difficoltà di interpretazione: spesso un’immagine conta meno per ciò che rappresenta che per la sfera a cui appartiene; un bassorilievo funerario bacchico afferma meno la credenza in questo dio che l’esistenza di una sfera di idee religiose in generale, senza maggiori precisazioni. Prendiamo, per esempio, un’analogia moderna: molti quadri religiosi dal secolo XVI al XVIII, non esitano a mettere in mostra attrattive decisamente mondane, sante troppo graziose, e anche semi nudità; tuttavia lo spettatore, fosse pure un membro della nobiltà, «filosofo» e libertino, vi riconosceva un quadro religioso e lo collocava in una sfera più elevata delle nudità di Boucher.

Bacco, divinità felice, personaggio marginale, aperto a tutte le innovazioni, dio soprattutto mitologico, che la religione comune ignorava e che l’immaginazione poteva atteggiare a suo piacere, è stato il favorito di queste teologie funebri di circostanza; la sua leggenda e i suoi riti sono rappresentati su numerosi sarcofagi e, in particolare, su tombe di bambini: la scomparsa di un essere giovane suscita espressioni poetiche di tono consolatorio; su un epitaffio di adolescente si legge: «E stato rapito da Bacco perché diventasse suo iniziato e suo compagno». Eccettuato qualche caso, questi sarcofagi non appartengono ai membri di una setta bacchica e i loro ornamenti non illustrano le credenze che erano loro proprie. Ma neppure illustrano una religione bacchica che sarebbe stata diffusa a quei tempi. Tuttavia non si tratta di elementi puramente decorativi: a quei tempi non si era mai sicuri che nelle favole non ci fosse un fondo di verità o che la dottrina di qualche setta non fosse veridica. Bacco, dio dell’aldilà, esprimeva una possibilità consolante di cui si era sentito parlare(1).

Epitaffi e arte funeraria hanno il tatto di suggerire solo idee consolatrici; ma Platone, Epicuro, Lucrezio e altri ancora ci ripetono che le anime degli agonizzanti erano spesso agitate dal ricordo delle loro colpe e dei loro delitti, e che erano angosciate dalla prospettiva di dovere di lì a poco presentarsi davanti agli dèi che li punirebbero; sono affermazioni che ci sembrano comprensibili. La paura dei moribondi non si riferiva ai castighi mitologici in quegl’inferni fantastici che nessuno aveva mai preso alla lettera; erano «gli dèi» che facevano paura, perché sempre si era saputo che «gli dèi» erano giusti, che esercitavano la provvidenza e la vendetta, senza peraltro chiedersi come, in concreto, operassero: essi erano là per vendicare la coscienza umana. «Quello scellerato — scrive Valerio Massimo — spirò pensando alle sue perfidie e alla sua ingratitudine; la sua anima era dilaniata come da un carnefice, perché sapeva di passare dagli dèi del cielo che lo odiavano agli dèi di sotterra che lo esecrerebbero».

Non crediamo che l’epicureo Lucrezio abbia esagerato nel dipingere i rimorsi degli agonizzanti, per fare apparire più decisamente indispensabile la filosofia della sua setta volta a tranquillizzare l’animo. Diceva la verità: il paganesimo, religione di feste, si arricchiva di prospettive etiche, fonti di ansietà che non poteva sedare; perché non era una religione della salvezza, che rassicura i suoi fedeli offrendo loro una regola di vita in questo mondo cui attribuisce la funzione di assicurare la salvezza dell’altro mondo. Una simile regola di vita andava chiesta alle dottrine che esprimevano un ideale del saggio, alla filosofia degli epicurei, a quella degli stoici, ad altre ancora; dottrine che promettevano di sottrarre l’individuo all’angoscia, di renderlo felice, cioè tranquillo.

POUL VEYNE

Da “La vita privata nell’impero romano”, di P Veyne – Laterza

Foto: Rete

 

NOTE

1 L’iconografia bacchica è più che decorativa e meno che religiosa in senso pieno. La chiave del problema sta in un’idea di Jean-Claude Passeron la cui importanza teorica ci sembra grande: la lingua delle immagini non è assertoria: un’immagine non può affermare, ma nemmeno negare e dire «un po’», «forse», «domani», ecc., di ciò che mette innanzi agli occhi. L’iconografia bacchica è una seducente proposta che non esige risposta e che lascia in forse circa l’entità della sua realtà. E questo non perché ogni simbolismo, come si dice, sia fluido, suscettibile di mille interpretazioni: essa non esige neppure che si risponda con un sì o con un no, che si sappia ciò che si pensa di Bacco. L’immagine, trovandosi al di qua dell’affermazione, non prende partito e non esige che si prenda partito.  Ma che un’immagine non sia assertoria non significa tuttavia che sia solo decorativa.

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