Cosa s’intende per “libertà”?

Abbiamo il sentimento di essere liberi quando scompare qualcosa che si opponeva a ciò che avevamo deciso di fare, e questo ci permette di compierlo. È per questo che le nostre definizioni spontanee di libertà sono praticamente sempre le stesse: «assenza di obblighi», «possibilità di fare quello che si vuole», «sentimento interiore di pensare quello che si vuole», «la possibilità di fare quello che viene in mente», «l’eliminazione di qualunque divieto» e così via.

Su questo argomento il fatto che tutti o quasi tutti rispondano la stessa cosa non significa di per sé che la risposta sia giusta, né d’altra parte che sia sbagliata: queste definizioni traducono realtà vissute, esperienze, sentimenti.

Ciò non toglie che bastino poche semplici idee per dimostrare che, rispondendo così, ci si contraddice senza rendersene conto. Facciamo un primo esempio: se un bambino piccolo «vuole» mettere le dita in una presa della corrente o saltare dalla finestra per volare come un uccello, sarà «libero» perché glielo si lascia fare? No, dato che ignora le conseguenze dei suoi atti. In altre parole, per essere liberi occorre conoscere la realtà, e proibirsi quei desideri che possono condurre alla morte. Il bambino sarà così più libero se si impone coscientemente l’obbligo di non prendere la scossa, di non schiantarsi al suolo…

Questo vale solo per un bambino piccolo?

Sono più libero perché mangio ciò che «voglio», anche quando questo mette a repentaglio la mia vita a causa di una malattia, oppure perché prendo una medicina disgustosa, ma che mi permette di guarire? Anche qui, mi libero imponendomi un obbligo.

Proseguiamo ancora: una persona assuefatta alla droga vuole prenderla. Se glielo si proibisce, si sentirà costretta, dunque privata della libertà. Tuttavia, sente anche che non può più non volere la droga. Non è il drogato che vuole la droga; è la droga che dirige la sua volontà. Il drogato è passivo davanti a essa; è vittima di una passione.

Nella vita di tutti i giorni, si associa la parola «appassionato» a una grande attività e non alla passività; in questa situazione, non si è disposti a tutto per raggiungere il proprio scopo, l’oggetto della propria passione? Tuttavia, in ogni passione, è proprio lei che ci governa: noi agiamo molto, ma anche se non lo volessimo lei sarebbe «più forte di noi», come si dice. Dunque in questo caso noi siamo «passivi» nei suoi confronti, e d’altra parte siamo disposti ad ammetterlo («è più forte di me», «non posso farci niente» …)

Avviene nell’arte, nello sport, nel gioco, e naturalmente nel sentimento amoroso. In tutti questi casi, mi sento libero quando arrivo a fare ciò che voglio, ma ciò che voglio si impone a me, e non sono libero di impedirmelo.

Prendiamo il caso opposto: quando compio un atto che mi costa o mi fa soffrire, mi capita di provare un grande sentimento di libertà. È il caso dello sportivo che oltrepassa i propri limiti, ma succede anche quando supero la mia pigrizia, o la timidezza, o la paura, per realizzare qualcosa, soccorrere qualcuno, dire ciò che tenevo dentro di me e così via. In situazioni del genere, c’è qualcosa in me che mi spinge in una direzione, mi conduce a desiderare questo o quello e, sempre in me, c’è qualcosa d’altro che trionfa su quell’ostacolo e mi permette di agire nella direzione opposta. Allora mi costringo a fare qualcosa, e ne ricavo il sentimento di essere stato libero di fare il contrario di ciò che volevo all’inizio.

Come si vede, la definizione di libertà come «poter fare ciò che si vuole», «qualunque cosa» eccetera, è quanto meno insufficiente.

Allo stesso modo, è impensabile che io sia governato come una macchina che realizza ciò che determinano le sue molle, i suoi ingranaggi o i suoi circuiti stampati. Il computer più perfezionato non risponderà mai 2 + 2 = 5 per fantasia, e se risponde così, è perché sarà stato programmato per farlo. Se gli si pone dieci volte la stessa domanda, non risponderà mai «E se cambiassimo argomento?», a meno che non sia stato determinato a farlo.

Così, un animale che ha sete berrà l’acqua che gli viene offerta; oppure sarà stato addestrato a rifiutarla. In ogni caso, sarà determinato dall’istinto o da un riflesso condizionato…

Anche l’uomo è per molte cose determinato e condizionato. Respiro, tossisco, trasalisco, rispondo automaticamente «4» quando mi si dice «2 + 2», cammino senza pensarci, acquisisco riflessi nella vita quotidiana, nello sport, nella musica, per guidare la macchina e così via. A mia insaputa la pubblicità mi fa associare determinate idee, ho gusti e sentimenti che non domino…

Tuttavia, posso aver sete, vedere un bicchier d’acqua, aver voglia di berlo, e rifiutare subito di farlo, per provare a me stesso che non sono una macchina, posso dire «2 + 2 = 5» anche se so che è falso. Se corro a lungo, il corpo potrà farmi male, potrà «chiedermi» di fermarmi, e io posso decidere un secondo dopo l’altro di continuare ancora, di «superarmi»; e proprio in quel momento ho il sentimento che è il «mio pensiero» a governare il mio corpo. In altre parole, ho la coscienza di poter scegliere nonostante le mie tendenze, di poter talvolta superare le mie paure, fare il contrario di ciò che avevo cominciato a fare. Il pensiero mi permette di agire al di là di ciò che mi determina, non sempre, naturalmente, ma se qualche volta ne sono capace, questo prova che possiedo la capacità unica, propria dell’uomo, di scegliere; e chiamo questa capacità «libertà».

Questo sentimento di possedere una libertà interiore è tanto più forte in quanto ne faccio in ogni momento l’esperienza. Se il lettore si è stancato di leggere queste righe, se sente in sé il desiderio di fermarsi, può anche, per provare a se stesso la propria libertà, costringersi a continuare; nel caso opposto, se la curiosità lo spinge a volerlo finire in un colpo solo, può, contro questa determinazione, chiuderlo qui. Da dove viene questa convinzione che il nostro pensiero possa liberamente governare i nostri atti?

Questa convinzione deriva dal fatto che, nel mio pensiero, io posso visualizzare un atto che non ho ancora compiuto, e compierlo in seguito. Immaginiamo che una pietra che cade da una scogliera sia cosciente come noi: la sua caduta è totalmente determinata.

Ma immaginiamo che essa pensi di voler continuare a cadere: si crederà libera nel suo movimento, penserà di aver deciso lei che esso continui. Il fatto che sia cosciente non cambierà nulla alla realtà delle cose (cioè al fatto che lei è determinata, che ricade per necessità nelle leggi della natura), ma le darà l’illusione di essere libera.

E se noi fossimo nella stessa condizione?

È una cosa che potrà sembrarvi assurda, inconcepibile. E tuttavia, se ci fermiamo alla constatazione dei fatti, cosa possiamo affermare? Noi agiamo, abbiamo coscienza di ciò che facciamo, e non abbiamo coscienza di eventuali cause che determinerebbero i nostri atti. Ne deduciamo che la coscienza dei nostri atti è la causa di quegli atti.

E se in ogni secondo anche noi fossimo determinati da cause di cui non abbiamo coscienza? Allora, come la pietra che cade, saremmo vittime di un’illusione. In altre parole, il sentimento di essere liberi non basta a provare la nostra libertà.

D’altra parte, non ci sono forse migliaia di situazioni in cui credo di essere libero mentre è sicuro che non lo sono? Quando ho bevuto troppo, parlo e agisco in maniera determinata, come ammetto in seguito, ma al momento non ne ho coscienza. Allo stesso modo, mi capita di riconoscere, in seguito, di essere andato in collera per ragioni che ignoro. Oppure ancora, posso rendermi conto, alla lunga, che un tale atto o una tale decisione che avevo creduto di prendere liberamente un anno prima erano determinate dalle mie disposizioni di spirito del momento… Se questo vale in alcuni casi, cosa può dimostrarmi che non vale sempre, per tutti i miei atti? E se fossi totalmente determinato?

Dopo tutto, un’ipotesi del genere è concepibile. Ma lo stesso faccio fatica a prenderla sul serio: ho la certezza, appena ci penso, di essere libero nelle mie parole e nei miei atti. «So quello che dico». «Decido di fare questo». Queste frasi esprimono il mio sentimento profondo: «io cammino», «io decido», «io parlo», «io voglio» … Sono proprio io, «io», che voglio, decido e così via.

Queste parole sembrano di per sé evidenti; ma non lo sono. Se sono «io» che comando, allora chi «obbedisce»? Ancora «io»? Dentro di me saremmo dunque in due? Esaminiamo le frasi seguenti, che sembrerebbero chiarissime: «io sono contento di me»; «io mi sono dominato»; «(io) non so cosa (io) voglio» … In tutti questi casi, grammaticalmente, gli enunciati sono corretti, io «sento» cosa io voglio dire. Ma ogni volta ci sono due «io»: uno che comanda, uno che obbedisce, oppure uno che fa e l’altro che giudica e così via.

E se alla fine tutto questo non fosse che una credenza illusoria, proveniente da frasi fatte, che ho imparato da piccolo, senza rifletterci sopra, e che in seguito mi impongono il sentimento che «io» sia libero?

D’altra parte, in alcune circostanze, per rifiutare la responsabilità di un atto di cui non sono fiero, smetto di dire che sono stato «io» a decidere liberamente, e preferisco dire: «È stato più forte di me». Oppure: «Non so cosa mi abbia preso» … «Cosa», una sorta di pronome neutro, anonimo, sconosciuto, viene allora chiamato a designare la causa che ha determinato l’«io» ad agire così.

Tutto questo è molto comodo: quando sono fiero di un atto, ne attribuisco il merito a me, all’io; e quando ne rifiuto la responsabilità, la attribuisco a «cosa», e allora «io» è innocente, irresponsabile, determinato da qualche cosa di cui «io» non ha avuto coscienza.

Questione su cui meditare: al di là delle parole, che cosa mi dimostra che sono libero?

Se si riflette con sincerità e serietà su questa domanda, si può cadere vittima dello sconcerto: si finisce con l’essere totalmente persuasi di essere liberi, pur sospettando che si possa essere parzialmente o totalmente determinati. Ma forse è perché la domanda stessa provoca questa contraddizione, e dunque bisognerebbe formularla diversamente.

Per cominciare, è possibile ridurre il problema alla semplice alternativa «o sono libero o sono determinato»?

Come si è visto all’inizio, la questione è più complessa. Facciamo un esempio: partecipo a un’escursione in alta montagna con alcuni amici, e durante la strada, spossato, senza fiato, mi fermo e mi siedo. Sono libero o determinato? Posso dire: la fatica mi obbliga, mi determina a rinunciare a raggiungere la cima. Ma posso anche dire che è sempre possibile fare un passo in più, continuare, e che questa volta ho liberamente deciso di fermarmi. Perché, in effetti, si può sempre continuare, ma a che prezzo? La morte, magari. Allora, tra il progetto di raggiungere la vetta e il progetto di continuare a vivere, di non soffrire troppo, ho scelto il secondo. Le cose sarebbero potute andare diversamente; nello stesso posto, con lo stesso dolore, se la persona che più amo al mondo fosse stata da sola sulla cima, ferita, senza soccorsi, avrei potuto scegliere di continuare, a costo di morire.

Cosicché, in questo caso, io non avrei scelto le circostanze, certo (ma nessuno si sceglierà mai «tutto»: essere un uccello, vivere su Marte, avere quattro mani, essere immortale!), e dunque, in questo senso, la «libertà» assoluta è un’assurdità; ma, all’interno delle circostanze che si impongono a me, avrei liberamente preso la mia decisione tra due possibilità.

Così, in questo modo di porre il problema, non esisterebbe la libertà assoluta ma, relativamente ad alcune condizioni determinate, esisterebbe una capacità umana di scegliere un atto piuttosto che un altro in un modo assolutamente libero. La mia libertà sarebbe dunque allo stesso tempo relativa e assoluta.

Andiamo oltre: è sufficiente scegliere una cosa piuttosto che un’altra per essere liberi? Si è visto che scegliere senza conoscere non poteva costituire una libera scelta. Nel concreto, come si pone il problema?

La questione della libertà si presenta sempre in rapporto a un ostacolo. Per esempio, una malattia diminuisce e minaccia le mie facoltà vitali; voglio liberarmene; per raggiungere il mio scopo, dovrò subire un’operazione. Sarò più libero se mi si fa una cosa qualsiasi in un modo qualsiasi? No: sarò liberato dal male solo se il chirurgo sottomette la mano al suo pensiero, il pensiero al suo sapere medico, sapere che a sua volta è interamente determinato dalla conoscenza delle leggi biologiche. Tutto, in questo processo, è determinato; ed è questo che mi libera.

La mia guarigione sarà determinata, come la malattia determinava la mia morte. Ma uno di questi due determinismi, quello che passa dalla conoscenza, mi libererà. Si potrebbero trovare moltissimi esempi analoghi: per liberarmi da una costrizione, occorre che conosca

questa costrizione, e che la mia condotta sia determinata da questa conoscenza. Una volta liberato da quella costrizione, ce ne saranno molte altre; non sarò mai assolutamente libero, ma sarò sempre meno costretto.

La libertà appare allora come un processo infinito di liberazione. Questo vale per un individuo, per un popolo, per l’umanità intera: i progressi tecnici, economici, giuridici, sociali, politici eccetera danno ogni volta agli uomini la possibilità di superare le costrizioni, a condizione di seguire alcune regole (scientifiche, sociali, morali) alle quali si decide o no di sottomettersi.

A ciascuno il compito di cercare quali possono essere le regole individuali o collettive più adatte a generare la maggiore libertà possibile…

 

JEAN PAUL JOUARY

Da “A che cosa serve la filosofia? – Salani Editore

Foto: Rete

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