La Firenze di Dante

 

Firenze è, secondo Dante, un modello di città divisa. Vero è che a prima vista le divisioni sono parte viva della vita politica della città. Guelfi contro ghibellini dapprima, poi, ai tempi di Dante, guelfi neri contro guelfi bianchi, i partiti hanno continuato a fronteggiarsi l’un l’altro in sanguinosi scontri. Tuttavia dietro questa apparenza si nasconde un dinamismo economico che fa della Firenze di Dante una delle più importanti metropoli commerciali e bancarie di tutto l’Occidente medioevale. In effetti è verso la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV che Firenze si innalza al livello delle sue rivali più vicine (Pisa) o più lontane (Genova, Venezia): per popolazione (intorno ai 100 mila abitanti) che l’annovera fra le 4 città più popolose d’Italia insieme a Milano, Venezia e Genova (mentre Parigi non ha un numero superiore di abitanti e Londra raggiunge appena la metà di quella cifra); per il giro d’affari delle grandi corporazioni, di cui quella di Calimala e della Lana, che ne fanno una delle piazze più importanti del commercio europeo (nonostante lo svantaggio geografico, nel cuore del retroterra italiano, che la priva di uno sbocco sul mare e di conseguenza di una flotta); per il numero e la bellezza dei suoi monumenti pubblici e privati; per la qualità dei suoi scrittori, dei suoi artisti, dei suoi intellettuali nonostante la mancanza di una vera e propria università; per il lustro dei suoi mercanti, presenti in tutto il mondo soprattutto in Francia e in Inghilterra, dove sono altrettanto potenti e temuti quanto ammirati e invidiati; per il ruolo internazionale dei suoi banchieri di cui non possono fare a meno né principi, né papi, né re (soprattutto quelli d’Inghilterra).

Politicamente Firenze è guelfa dopo la vittoria di Carlo d’Angiò a Benevento nel 1266. Il giucco politico pendolare per cui, nei decenni precedenti, era passata da un campo all’altro, è ora terminato e per lungo tempo. L’appartenenza al partito guelfo non significa affatto una sottomissione incondizionata ai disegni dei papi e dei loro alleati angioini di Napoli. Lo si vedrà nel 1301 quando gran parte della classe dirigente (fra cui Dante) si oppone a Carlo d’Angiò venuto a sottometterla in nome del papa Bonifacio VIII e nel proprio nome. Il mondo politico e il mondo degli affari sono profondamente divisi: Bianchi e Neri costituiscono un’opposizione che denota, in fin dei conti, una «crisi di partito». Infatti gli uni (i Neri) sono disposti ad allearsi con quanti possono facilitarli nel ritornare al potere; gli altri (i Bianchi) professano una indipendenza politica ed economica che fa buon viso a un’alleanza formale con il papato e gli Angioini di Napoli nel rispetto geloso di una reale autonomia. Questa rivalità politica nasconde il tradizionale antagonismo fra la vecchia aristocrazia e la borghesia affarista: quella, non potendo accettare una situazione politica che la escluda dal potere; questa, (nel cui tessuto sociale si sono inserite molte famiglie della vecchia aristocrazia), paventa il ritorno al potere di coloro che ha eliminato sin dal 1293 con gli «ordinamenti di giustizia».

Questi ordinamenti di giustizia, a cui è legato il nome di Giano della Bella, determinano una irresistibile ascesa della grande borghesia affarista che essi difendono contro le vessazioni e gli eccessi dei Grandi (o Magnati). Costoro sono esclusi dagli organi più importanti del governo e posti, in qualche modo, sotto sorveglianza con una giurisdizione addirittura terroristica. Esclusi da tutti i consigli importanti, i Magnati sono tenuti a versare una cauzione collettiva; in caso di rifiuto dei versamenti o di turbamento dell’ordine pubblico di cui fossero responsabili, le loro case vengono distrutte ed essi vengono sottoposti a pene assai crudeli (il taglio della mano in caso di rifiuto del pagamento delle ammende). Il carattere eccessivo di queste misure provocò una reazione che costrinse all’esilio Giano della Bella nel 1295. Gli ordinamenti vengono subito emendati; si permette quindi ad un aristocratico di iscriversi ad una corporazione (un’Arte) senza l’obbligo di esercitare (ed è così che Dante può iscriversi alla corporazione dei medici e degli speziali). Ciò nonostante gli ordinamenti resteranno la Carta del governo fiorentino per più di un secolo e mezzo, sino cioè alla presa del potere da parte dei primi Medici (1434).

Firenze è dunque una democrazia borghese, governata da una signoria di sei, poi otto priori e un gonfaloniere, eletti dalle corporazioni o Arti più importanti, e, con funzione meno importante, da un podestà e un suo consiglio, da un capitano del popolo e dal suo consiglio che si compensano. […]. Tutto sommato si tratta di una oligarchia della ricchezza (e non già come a Venezia di una oligarchia della nascita) in cui convivono la vecchia aristocrazia e i nuovi ricchi della borghesia affarista.

Ma questa oligarchia non è omogenea e forti contrasti la travagliano e ne turbano l’armonia. Queste tensioni sfociano negli avvenimenti del 1301 sorti dall’azione comune di papa Bonifacio VIII e di Carlo II d’Angiò, re di Napoli, da una parte, e dalle rivalità dei clans familiari: gli uni (i Bianchi) riuniti intorno alla famiglia dei Cerchi, gli altri (i Neri) intorno ad un personaggio colorito (Corso Donati) che attendeva l’ora della rivincita su coloro che l’avevano estromesso dal potere nel 1293. Questa rivincita arriva all’inizio di novembre del 1301. Trascinati da costui, i Neri instaurano un regno di terrore per una settimana: uccidendo, violentando, incendiando e esiliando i Bianchi che vanno a ingrossare fuori di Firenze le file dei ghibellini esiliati. Tuttavia è questa una vittoria effimera: nel 1308, perseguitato, Corso Donati preferisce suicidarsi.

In questo stesso anno, un bagliore di speranza accende l’animo dei ghibellini e dei Bianchi esiliati: l’elezione di un nuovo imperatore, Arrigo VII di Lussemburgo, deciso a scendere in Italia per esservi incoronato sì da diventare di diritto e di fatto il signore d’Italia. Salutato da Dante come un liberatore, acclamato come un salvatore da tutti i ghibellini, Arrigo VII, dopo alcuni successi iniziali, si trova però di fronte all’ostilità e ad una insolente sfida di Firenze nonostante prima le esortazioni, poi gli anatemi di Dante «agli scelleratissimi fiorentini». E quando morrà nel corso della ritirata, Arrigo VII lascerà un’Italia in cui è chiaro che il vecchio concetto di Sacro Romano Impero germanico è soltanto, nonostante ciò che pensa Dante, un vero e proprio orpello da museo della Storia.

In una Firenze liberata dalla minaccia imperiale e ghibellina, la classe politica crede opportuno di porsi sotto la protezione di Roberto di Napoli, al quale offre la signoria della città per cinque anni. Ma i vicari del re combattono senza determinazione contro il potente rivale di Firenze, il vecchio condottiero Uguccione della Faggiuola, signore di Pisa e Lucca, ghibellino convinto, che annienta le truppe fiorentine a Montecatini nel 1315. Il pericolo ghibellino diventa ancora più pressante con il successore di Uguccione, il giovane e ambizioso Castruccio Castracani, ottimo condottiero quanto avventuriero senza scrupoli. Non è certo la lontana protezione di Roberto di Napoli, nominato nel 1318 « protettore, governatore e rettore» di Firenze, che può impedire a Castruccio, divenuto signore a vita di Lucca e governatore di San Miniato e Pistoia, di sbaragliare le truppe fiorentine ad Altopascio nel 1325. Dante, morto nel 1321, non ha dunque assistito a quest’ultima peripezia nella storia della sua città. […].

 

PIERRE ANTONETTI

Da “Firenze ai tempi di Dante” – Fabbri Editore

Foto: Rete

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