La triste storia di Gherardo Segarelli e dei suoi seguaci

Nel 1294 a Parma quattro individui, due uomini e due donne, salirono sul rogo in quanto eretici dell’ordine degli apostoli. Il loro capo nello stesso anno veniva invece condannato al carcere perpetuo: Gherardo Segarelli aveva ricevuto, per dir così, un trattamento di favore? In verità, bisogna considerare che era allora sulla cattedra vescovile parmense Obizzo Sanvitali, il quale nel suo lungo episcopato aveva ben conosciuto Gherardo e i suoi seguaci. Nel lontano 1269 aveva addirittura raccomandato alla carità dei fedeli le sorores apostolomm, concedendo un’indulgenza di quaranta giorni a coloro che le avessero beneficiate. Non è da stupire che l’anziano prelato non se la fosse sentita di mandare al rogo l’uomo che egli aveva frequentato da tanto tempo e che forse persino aveva apprezzato. Passato alla cattedra ravennate Obizzo, il Segarelli fu finalmente condannato al rogo dal frate domenicano Matfredo nell’anno del primo Giubileo proclamato da Bonifacio VIII: era il 18 luglio 1300. L’esecuzione dell’iniziatore degli apostolici giungeva al culmine di una generale mobilitazione degli inquisitori operanti nella pianura padana decisi a porre fine a un movimento religioso che si era sottratto alla disciplina ecclesiastica. Erano passati quarant’anni dal momento in cui un giovane di modesti natali, immigrato in Parma dagli immediati dintorni, aveva deciso di farsi apostolo del Cristo. Gherardo nel corso di quel quarantennio aveva visto svolgersi la parabola e la metamorfosi della propria esperienza religiosa: nata nella piena ortodossia e mutata in eresia attraverso meccanismi messi in moto e scelte operate ai vertici ecclesiastici.

La svolta decisiva venne determinata dalla decisione dei Padri conciliari riuniti a Lione nel 1274, formalizzata nel canone Religionum diversitatem nimiam: esso mirava a interrompere il convulso proliferare di ordini religiosi, specialmente mendicanti, sanzionando nel contempo l’eminente funzione e posizione ecclesiastica di Predicatori e Minori. Riferendosi all’omonimo canone del quarto concilio lateranense, l’assemblea lionese proibiva la costituzione di qualsiasi nuova religio e imponeva che gli ordini, sorti dopo il 1215, bloccassero il loro sviluppo e la fondazione di nuove sedi, chiudendo il reclutamento e concedendo ai propri membri di trasferirsi in qualcuna delle religiones approvate dalla sede apostolica. Il Segarelli e i suoi seguaci non accettarono di conformarsi a tale normativa: l’atto fu interpretato come segno di tendenza all’eresia, e poco dopo si avviò il processo della loro ereticazione.

Nel marzo 1286 Onorio IV emanò la bolla Olim felicis recordationis che, partendo dal ricordo della decisione di Gregorio X sotto il cui pontificato si era svolto il secondo concilio di Lione, imponeva alle autorità ecclesiastiche di ricercare i membri del sedicente ordine degli apostoli obbligandoli a deporre l’abito oppure a entrare in un ordine riconosciuto, altrimenti di rinchiuderli in carcere o colpirli con altre pene. A distanza di quattro anni Niccolo IV rinnovò il provvedimento del suo predecessore, stabilendo che la facoltà di giudizio spettasse agli inquisitori: nel 1296 Bonifacio VIII ribadiva grosso modo le stesse decisioni. Gli interventi pontifici, rivolti a rendere operante l’anteriore canone lionese, trasformarono le ragioni disciplinari in motivi dottrinali: coloro che avevano disobbedito alle norme ecclesiastiche, furono proiettati nell’area dell’eterodossia (ancora una volta, occorre aggiungere). La cultura chiericale con estrema facilità poteva ricorrere al bagaglio polemistico ereditato da un passato più o meno recente. Contro gli apostolici furono rispolverate le accuse classiche: simulazione di santità, riunioni occulte, predicazione contro la chiesa romana, attentato alla fede dei semplici. Sul piano operativo gli inquisitori, muovendo da tale base ideologica, avrebbero fatto il resto. «Poiché sempre più l’errore e l’eresia degli apostolici col passare del tempo si espandevano, per autorità della sede apostolica gli inquisitori dell’eretica pravità presero a ricercare e a procedere contro loro in Italia»: scriveva il domenicano Bernardo Gui, ricordando gli effetti della mobilitazione cattolico-romana seguita alle bolle di Onorio IV e di Niccolo IV. Questi i fatti: ma per quali ragioni tanto accanimento contro coloro che intendevano seguire la vita apostolica e la povertà evangelica?

Per cercare di chiarire l’interrogativo soccorre il magnus tractatm che il francescano Salimbene de Adam dedicò a Gherardo Segarelli e ai suoi seguaci all’interno della sua famosa Cronica. Questa è inoltre la fonte che consente pure di conoscere inizi e sviluppi della vicenda degli apostolici (anche se esiste un certo scarto tra i dati cronologici forniti da Salimbene e quanto si ricava dagli Statuti di Parma che attestano l’esistenza di una «domus religionis  Apostolorum» già negli anni cinquanta del Duecento). Tuttavia occorre premettere una considerazione che è un criterio di lettura della trattazione salimbeniana. Essa non rappresenta il resoconto, sia pur antagonistico, della vicenda degli apostolici e del loro fondatore, ma un’interpretazione a posteriori, volutamente aderente e finalizzata alla decisione del Lionese secondo sui nuovi ordini religiosi: decisione alla quale gli apostolici non si erano adeguati, entrando così illegittimamente in concorrenza istituzionale con i Mendicanti canonisticamente approvati e in contrasto disciplinare con l’apparato ecclesiastico. L’esperienza pauperistico evangelica e penitenziale iniziata dal Segarelli fu percepita come inconciliabile con l’universo religioso-culturale e, persino, esistenziale che il frate cronista aveva scelto. In questo caso non c’è una realtà da indagare, qui c’è una realtà da negare e da combattere. In giuoco è una questione di verità, intorno .a chi siano i «veri mendicanti». Questioni di spirito di corpo, si potrà dire. In parte sì, ma non si dimentichi che, quando frate Salimbene scrive, la decisione lionese è già stata presa: la vicenda degli apostolici assume in negativo valore esemplare per attestare l’opportunità e la giustezza del riordinamento avvenuto. Perciò il Segarelli e i suoi compagni sono mostrati nella luce di violatori dell’ordinamento che è a un tempo religioso e civile.

Il colto e aristocratico frate, innanzitutto, connota gli apostolici con termini quali ribaldi, stolti, ignobili, porcari, custodi di vacche, uomini rurali, rustici, idioti, bestiali, indotti, ingannatori, ladroni, fornicatori. Come essi, in quanto tali, potevano pretendere di annunciare il Vangelo e di mettersi allo stesso livello di Minori e Predicatori? Opportunamente Gregorio X, nel concilio di Lione, aveva ricomposto e riordinato ciò che era minacciato di frammentazione e di disgregazione: ciascuno di nuovo al proprio posto in armonia con la volontà divina, Minori e Predicatori in alto, Gherardo Segarelli e apostolici in basso. In basso perché pseudoapostoli, rustici piuttosto, e perciò da rimandare alla zappa e alla custodia di porci e vacche: quei lavori che essi, in quanto ribaldi e fannulloni, vogliono evitare, pur essendo degni al massimo di «purgare le latrine o di esercitare altre vili opere». Lo sconvolgimento delle gerarchie ecclesiastiche e socio-politiche e la violazione di un ordine nel quale divino e umano coincidono, per il francescano Salimbene sono inaccettabili. Gli apostolici «non lavorano come i rustici, non combattono come le aristocrazie militari, non evangelizzano come i chierici». Non c’è alcunché di positivo in loro, proprio nulla che dia un qualche senso alla loro esistenza:

Non sono utili a predicare, né a cantare l’ufficio ecclesiastico, né a celebrare le messe, né ad ascoltare le confessioni, né a insegnare nelle scuole, né a dare consigli, neppure a pregare per i benefattori, perché vagabondano tutto il giorno per le città guardando le donne. A che cosa servano alla chiesa di Dio e di quale utilità siano al popolo cristiano non riesco a vedere.

Si rovescino le affermazioni negative e si avrà la positività dei veri Mendicanti, francescani e domenicani. Il ribaltamento vale anche per la vicenda personale di Gherardo Segarelli. Ogni atto che potrebbe attestare la radicale evangelicità della sua conversione, è letto in chiave di «stoltezza», di distorsione dei messaggi biblici: la circoncisione, il farsi infante, il vincere le tentazioni della carne, l’impegno missionario, l’annuncio dell’urgenza della decisione cristiana (ciò che per frate Salimbene conta è la corretta pronuncia del Penitentiam agite, e non il valore intrinseco dell’annuncio, benché foneticamente distorto, del Penitençagite!). Insomma, il cronista parmense, rigettando certa popolarità francescana, svilisce l’esperienza religiosa di Gherardo attraverso un linguaggio e immagini riconducibili a un universo carnevalesco. Istrione, giullare, mimo: ecco colui che si era illuso di intraprendere una missione evangelica imitando gli apostoli e assumendone gli abiti e l’aspetto in conformità all’iconografia visibile sul coopertorìum della lampada della «società e fraternità del beato Francesco» che si trovava nella chiesa dei frati Minori di Parma, dove in gioventù ripetutamente si era fermato a meditare e a pregare. La chiesa di quei frati che non avevano esaudito il suo desiderio di entrare nella famiglia francescana, con tutta probabilità, a causa della sua origine sociale. D’altronde, quand’anche vi fosse stato accolto, la sua incultura e rusticità avrebbero fatto sì che «a stento» gli sarebbe stato concesso di servire a tavola, o di lavare le scodelle, o di andare a chiedere l’elemosina di porta a porta. Sono parole e idee dure nella penna di un seguace di Francesco d’Assisi: a documentare le metamorfosi in atto nell’ordine dei Minori, teso a ottenere il massimo risultato nel raccordo con i ceti eminenti e sotto la direzione di «dottori chiarissimi ed espertissimi» (sono parole di Bonaventura di Bagnoregio). E tale raccordo non era semplicemente il prodotto di un’evoluzione realizzatasi nella prassi, ma piuttosto la risultante di consapevoli teorizzazioni. «Poiché Dio in questo secolo preferì i ricchi e i potenti ai poveri (…), onorando i potenti concordiamo con l’ordine da Lui stabilito»: si legge in una Determinatio francescana di età bonaventuriana.

È quindi assai logico che il Segarelli, secondo frate Salimbene, avesse come primi interlocutori i ribaldi, ai quali distribuì i denari ricavati dalla vendita di una sua piccola proprietà e ai quali, avvolto in un mantello bianco di stamigna rozza, annunciò la buona novella, salendo in piedi sulla pietra dalla quale in antico i podestà di Parma solevano tenere le loro concioni. Non meno logico che il suo primo discepolo fosse un serviens dei Minori, «giovane disobbediente e protervo», che si era allontanato dal suo lavoro sottraendo «la coppa e il coltello e la tovaglia che aveva ricevuto in uso». Le cose non migliorarono quando i seguaci crebbero di numero. Radunatisi in una casa, i discepoli acclamano Gherardo con gesti e parole puerili, ripetendo a più riprese Pater, pater, pater, secondo l’uso dei fanciulli ai quali nelle scuole i maestri fanno ripetere a intervalli le parole insegnate. Gherardo, in quell’occasione, fece denudare completamente i suoi compagni, distribuendoli lungo le pareti. Gli abiti dei presenti furono raccolti e legati insieme al centro della stanza: venne allora introdotta una donna che casualmente restituisse gli indumenti. Salimbene non nasconde che l’intenzione era quella di un’espropriazione totale, reale e a un tempo simbolica, che rappresentasse significativamente la loro decisione di seguire «nudi il Cristo nudo». Tuttavia, egli sottolinea che la cerimonia avviene «in modo inonesto» e alla presenza della «donna, origine del peccato, strumento del diavolo, allontanamento dal paradiso, madre di scelleratezza, corruzione della legge antica». Insomma, Salimbene si assume il fardello della polemica e ne sviluppa ogni aspetto: benché non riesca a occultare in pieno taluni caratteri positivi dell’esperienza religiosa degli avversari.

Si pensi che gli apostolici, essendo incerti sulla fisionomia istituzionale da assumere, si erano rivolti per un consiglio al magister Alberto di Parma, «uno dei sette notai della curia romana», il quale aveva delegato a tale ufficio l’abate cistercense di Fontevivo. La decisione di quest’ultimo era stata interlocutoria:

Costui si sbrigò presto del fatto, dicendo di non fare luoghi conventuali e di non congregarsi in case, ma di andare per il mondo, come avevano cominciato, portando i capelli e la barba lunghi, senza copricapo e col mantello avvolto attorno alle spalle, e di chiedere ospitalità in diverse case.

C’era stato un tempo, dunque, in cui gli apostoli non erano poi quei «ribaldi e porcari e stolti e ignobili» che Salimbene squalifica, se un protonotario della sede pontificia di loro si era occupato, coinvolgendo nella questione il superiore di un monastero parmense, e se la loro esperienza non era stata bloccata, bensì fatta proseguire nei termini peculiari in cui aveva preso vita. Due aspetti positivi individua, inoltre, lo stesso frate cronista: da un lato, gli apostolici avevano fatta propria l’immagine iconograficamente tradita dagli apostoli del Cristo e, d’altro lato, erano sorti nel 1260, l’anno della «devozione dei flagellanti», quando secondo la visione gioachimita sarebbe iniziato lo status dello Spirito Santo, il «terzo stato del mondo». Inoltre, che gli apostolici conoscessero un certo successo è rilevabile dal fatto che i cittadini di Parma li beneficiavano più ampiamente che i Minori e i Predicatori e che la predicazione di un fanciullo apostolico nelle chiese cattedrali di Ferrara e Ravenna attirava molta folla. Il successo impose problemi organizzativi e di direzione: Gherardo Segarelli in coerenza con la convinzione evangelica che ognuno era responsabile delle sue azioni, rifiutò sempre di tradurre la sua posizione di prestigio in una funzione di comando istituzionale. Subentrarono allora contrasti e tensioni nella nuova formazione religiosa, specialmente tra i seguaci dell’Emilia-Romagna e i fratelli della Marca Anconitana, gli uni e gli altri volendo rappresentare l’orientamento più autenticamente apostolico.

Si era intorno agli anni del secondo concilio lionese, si stavano avvicinando tempi difficili. Obizzo Sanvitali, vescovo di Parma, decise (non si sa in quale anno, ma è pensabile immediatamente dopo la bolla di Onorio IV del 1286) di espellere gli apostolici dalla sua diocesi, gli apostolici che egli «a lungo aveva favorito a motivo di frate Gherardo Segarelli». Secondo Salimbene l’antico favore si giustificava in dipendenza dal carattere del presule parmense, homo solatiosus, il quale si sarebbe divertito per le parole e per i gesti di Gherardo, ammesso alla sua mensa dopo averlo incarcerato per breve tempo, ritenendolo «non un religioso, ma un giullare sciocco e insensato». In tutta evidenza queste sono giustificazioni a posteriori nella logica della devastazione polemica degli avversari. Noi possiamo pensare, in modo più realistico, che il vescovo abbia provato una certa ammirazione verso i nuovi apostoli, uomini e donne, nonostante le preoccupazioni che avevano potuto provocargli per le opposizioni che a livello locale gli apostolici trovarono tra i Mendicanti soprattutto. Il mutamento dovette intervenire a seguito dei provvedimenti conciliari e papali. Obizzo ordinò l’espulsione degli apostolici dalla sua diocesi. Altrove invece essi continuarono a ricevere riconoscimenti e appoggi: a Bologna, sin ai primi anni novanta del Duecento, il comune concede contributi in denaro ai membri dell’ordo Apostolomm. Ma anche qui la situazione cambierà presto a seguito del massiccio intervento degli inquisitori «lombardi» impegnati nel far rispettare le norme ecclesiastiche. Si accenderanno i primi roghi. Il Segarelli sarà incarcerato dallo stesso vescovo Obizzo per finire anch’egli tra le fiamme all’alba del nuovo secolo. Nel frattempo il suo «ordine» stava conoscendo nuove evoluzioni sotto lo stimolo di un altro leader, destinato a fama duratura: il suo nome era Dolcino.

 

GRADO GIOVANNI MERLO

Da “Eretici ed eresie medievali” – il Mulino

Foto: Rete

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