
Quercus robur L. – Farnia
La quercia di Zeus era probabilmente la farnia, o Quercus robur, un albero forte e maestoso che raggiunge i 35 metri. Con i suoi rami nodosi, bruni e massicci sembra un gigante selvaggio, come ha scritto Giuseppe Sermonti, che incute rispetto e riverenza. Potrebbe raggiungere i duemila anni di vita, con un diametro di 10 metri, se non la si abbattesse per sfruttarne il legno durissimo usato, un tempo, per la costruzione delle navi. Per questo motivo i Romani chiamavano robur sia la quercia sia il vigore fisico e quello morale: da cui l’aggettivo robustus. Ma non meno imponenti sono il rovere (Quercus petraea), che giunge fino a 40 metri di altezza, e il cerro (Quercus cerris) che tocca i 38. Sono tutte specie a foglie decidue: soltanto il leccio (Quercus ilex), trattato nel capitolo dedicato alle piante, la sughera (Quercus suber), dalla cui scorza si ricava il sughero, e il fragno (Quercus macedonica) sono sempreverdi.
Questi alberi forniscono anche molti prodotti utili: le ghiande, innanzitutto, ritenute il primo alimento degli uomini, come rammenta la quercia di una novella del Cunto de li cunti del Basile, che alla bella Cianna in viaggio per trovare la madre del tempo dice: «Tu ne sei poco lontana, e non camminerai un’altra giornata che vedrai sopra una montagna una casa, dove troverai quel che cerchi. Ma se hai tanta cortesia quanta bellezza, procura di sapere che cosa potrei fare per recuperare l’onore perduto: perché da pasto di uomini grandi sono fatta cibo da porci». Non era vero dappertutto: perché nel XVI secolo Cristofaro da Messisbugo, cuoco alla corte di Ferrara e conte palatino per grazia di sua maestà imperiale Carlo V, ne consigliava le ghiande in una ricetta, «Torta di nespile, o pere, o castagne, o ghiande, o tergoli, o codogne, o d’altro», pubblicata nel Libro Novo.
Ma soltanto le ghiande del rovere, del leccio, della Macrolepsis e della Valonea sono eduli.
Si diceva che avessero proprietà fecondatrici e afrodisiache: d’altronde bàlanos in greco e glans-glandis in latino indicano sia questo frutto sia il glande del pene.

Quercus_robur, foglie e ghiande
Con le ghiande eduli si faceva anche una specie di pane documentato ancora alla fine dei nostri anni Sessanta: veniva preparato mescolando la farina di ghiande con un tipo di argilla, secondo una tecnica già usata a Roma per la preparazione dell’allea, un pane di grano duro. «Tra i molti vivi monumenti delle più remote e più venerande dell’antichità che la Sardegna può mostrare con ostentazione» scriveva nel 1792 Matteo Madao nelle Dissertazioni stanche, apologetiche e critiche sulle sarde antichità «l’uno si è l’uso del pane di ghianda oltre al regolar pane di frumento, di ch’essa abbonda: costume che tuttavia è in fiore in alcuni paesi d’una delle province dell’Isola detta l’Oleastra, come in Bauney, Triey, Ursuley, Talana Strisaili, Arzan, Gayro, Hierzu, Massai (Hukassay), Hylbono e somiglianti: poiché i loro abitatori per lo più non mangiano che il saporito pane della selva di Dodona, da essi fatto in modo particolare il quale, però, preferiscono all’ordinario pane caro a Cerere. Esso pane di ghianda, giusta l’osservazione degli antichi scrittori, da sant’Isidoro notata, era comunemente il sostanzioso alimento dei prischi uomini, che vissero nella primiera età del mondo.»
Un pane abbastanza nutriente: conteneva infatti il 18 per cento d’acqua; il 13 per cento di cellulosa; il 22 per cento di sostanze amidacee; l’8 per cento di zuccheri semplici espressi in glucosio; il 14 per cento di sostanze azotate; il 15 per cento di sostanze minerali con prevalenza di silice, di alluminio e di ferro, piccole quantità di calcio e di magnesio e tracce sensibili di fosforo, sodio e potassio; e, infine, il 10 per cento di sostanze indeterminate per complemento.
Né ci si stupisca dell’uso dell’argilla perché fino a qualche decennio fa si prescriveva per le affezioni ulcerose del duodeno una terapia a base di caolino che, come l’argilla, è un silicato di alluminio.
«Fra tutti gli alberi» scriveva Teofrasto «la quercia dà il numero più alto di prodotti, come la galla di piccole dimensioni e l’altra, nera e simile alla pece; c’è inoltre un’altra escrescenza a forma di mora, ma dura e difficile da spezzare e rara; un’altra a forma di verga, dura, eretta e forata; questa assomiglia per certi versi a una testa di toro, ma rotta, e racchiude una specie di nocciolo di oliva. Produce anche ciò che alcuni chiamano “feltro”. È una piccola palla lanosa e molle intorno a un nocciolo duro, della quale ci si serve per le lampade perché brucia bene come la galla nera.» Queste escrescenze provocate da punture di insetti erano utilizzate nella concia delle pelli, nella tintura, nella produzione dell’inchiostro e anche in medicina per le loro proprietà astringenti.
Pochi boschi sono ricchi di vita come un quercete ad alto fusto. L’aperta cupola delle querce consente che molta luce raggiunga il suolo della foresta: le sue foglie marciscono in fretta dopo la caduta concimando il terreno e consentendo la crescita di altri alberi o arbusti, specie frassini, noccioli, cornioli, e una grande varietà di piante erbacee. Offrono infine cibo e rifugio a molti animali e insetti fra cui le cicale che i Greci chiamavano dryokóitai, «quelle che dormono nelle querce».
La sua imponenza e longevità insieme con i tanti doni che offre a uomini e animali hanno ispirato il simbolo del padre, celeste e terreno e conseguentemente quello della sovranità sia divina sia terrena.
ALFREDO CATTABIANI
Da “Florario” – Mondadori
Foto: Rete