«Pianto della Calabria»

 

Nel paragrafo sul «Pianto della Calabria» del suo De antiquitate et situ Calabriae (Roma 1571), Gabriele Barrio, un sacerdote nato a Francica intorno al 1510, dopo avere a lungo indugiato sulle delizie della sua terra di Calabria […] si pone a descrivere la decadenza della Calabria del primo Cinquecento, da attribuirsi non alla natura matrigna, ma ai feudatari malvagi, al governo inerte, al fisco iugulatorio, agl’infedeli predatori; è un quadro d’impressionante precisione e libertà d’analisi, di cui vale la pena riportare almeno la traduzione dell’elegante prosa latina, che si ebbe le lodi del Croce:

Essendo dunque questa, e siffatta, la regione calabrese, e ben ricca di sovrani feudali, ben a ragione dovrebbe andare esente da ogni peso e godere di confacenti onori. E invece o tempi maligni! – non solo essa è travagliata dalle ordinarie esazioni fiscali, ma è vessata da ingiusti e pesanti gravami. Per la qual cosa molti si sono spinti a tagliare le vigne per l’eccessiva stima che si faceva del loro provento. Aggiungi poi che tanto l’una che l’altra spiaggia della regione ogni anno sono infestate dai pirati; per cui città e villaggi vengono spesso dati in mano al saccheggio, al massacro e all’incendio; si bruciano le messi, si tagliano i vigneti, gli oliveti e ogni sorta d’alberi; e bestie innumerevoli e pecore e – cosa tanto più miseranda e lagrimevole -, esseri umani d’ogni età e sesso vengono offerti in preda. Perciò città e casali sono ormai privi di abitanti, e i campi sono diventati, in più luoghi, avviliti e incolti. Non c’è alcuno che tuteli i mari, che dia sicurezza alle strade infestate da ladri e grassatori, e che prenda esatto conto di coloro che sono stati fatti schiavi dai turchi e li redima dalla servitù presso gl’infedeli, restituendoli alla libertà del popolo cristiano.

Ma ci sono, invece, coloro che, senza necessità alcuna, ogni quindici anni vogliono prendere esatto conto della gente d’ogni sesso e d’ogni età, e che pretendono il tributo finanche dai più poveri. Ciò non si sarebbe mai e poi mai verificato presso gli antichi romani, giacché ogni anno si veniva a pagare un sol denaro per testa. Servio Tullio, sesto dei re di Roma, individuò persone che lasciò esenti da ogni gravame fiscale, avendo esse meno di cinquemila denari, come se fossero di scarso potere economico, e quindi non in grado di tollerare esborsi. Il senato romano, al tempo di Porsenna, e poi sempre m ogni grande necessità, mandò esente la plebe da ogni tributo, e comandò invece che i ricchi pagassero le imposte nella misura in cui fossero in grado di tollerarne l’onere che i poveri già pagavano abbastanza di tributo se educavano i figli. Aggiungi, poi, che la regione abbonda anche di mostri, intendo dire di piccoli re e di piccoli tiranni, che la travagliano e la spogliano, e che, come altrettanti Lestrigoni di Campania, per la loro inesauribile fame e inestinguibile sete, giorno per giorno si alimentano delle fatiche dei loro vassalli; e già si sono usurpati selve, valli, campi, pascoli, fiumi, cacce, riserve, e alla fine tutti i diritti dei popoli. Ed è per questo che chiamano i popoli a loro soggetti, per il fatto che li vessano, vessalli, che significa vessati. E invece i romani, com’era della loro moderazione, non li chiamavano soggetti, ma soci. Alcuni di loro esercitano la mercatura, ma tenendola a disdoro, e come cosa che non è degna di esseri umani nati liberi. Presso i Romani, in un impero cosi grande, non si poteva neppure immaginare che tante e tanto fameliche arpie si impadronissero delle fatiche dei mortali. Ad onor del vero, molte illustri città si sono scossa dalla nuca la molestissima scure del dominio feudale, dato che non erano in grado di sopportare il giogo della schiavitù.

È questo il quadro della Calabria sotto la dominazione spagnola, ma è anche il quadro di tutto il Mezzogiorno tra Cinquecento e Settecento: ogni narrazione che imprenda a parlare di questo periodo deve scontare una ripetitività di casi e di casistiche, tra statali e feudali ed ecclesiastiche e piratesche: non perché manchi il sotterraneo tarlo della trasformazione (che è inevitabile e presente dovunque esistano classi e ceti, anche nei momenti di maggiore vischiosità socio-economica), ma perché nella Calabria viceregnale i suoi progressi vi furono lentissimi, assai più lenti del passato Quattrocento e del futuro Settecento, infinitamente più lenti che in qualsiasi altro contesto dell’Occidente europeo.

In questi secoli, la Calabria smarrì i pochi elementi di prestigio – economico, sociale, politico – che l’avevano contraddistinta, spesso felicemente, nell’alto Medioevo, e poi anche, ma con un certo indebolimento, nel Tre e nel Quattrocento, con la già accennata reviviscenza alla fine del Quattrocento aragonese. Così la Calabria, ora nell’orbita dell’impero madrileno, finiva con l’essere la periferia lontana di un Viceregno già per suo conto fin troppo lontano e sfruttato dalla capitale, una regione che gradualmente si trovò a perdere l’identità divenendo una delle canoniche dodici province del Regno, o, meglio, quella in cui lo stato rivelava sempre di più le sue carenze. Quasi non bastasse, la regione venne funestata da successive e gravi calamità naturali: tanto per trarre un esempio da metà Seicento, la lunga serie di terremoti, che ebbe la sua punta più alta nel macrosisma del 1638, con 10000 morti e i 33 000 case distrutte o rovinate; e poi le sistematiche pestilenze, tra le quali spicca quella del 1656-57, a cui seguì il terremoto distruttore del 5 novembre 1659, e sempre con morti e distruzioni. Addirittura, poi, ad attestare l’inconsistenza delle strutture abitative della Calabria moderna, c’è da sottolineare che, a proporzione dei morti per il sisma, il numero delle case crollate era infinitamente più alto, prova della loro i costruzione con materiali assolutamente fragili e discontinui, cavati da povere risorse del luogo (blista, pietre di fiume ad andamento sferico e quindi dalla scarsa presa nella malta ecc.): il che la dice lunga sui generi di vita dei calabresi del tempo. Nel 1672 altra carestia: e scriveva il i cronista napoletano Innocenze Fuidoro:

Quest’anno nelle Calabrie ci fu mortalità grande, causata dalla penuria antecedente, mentre il grano, solito a vendersi da carlini sette incirca, arrivò fino a carlini ventisei; perciò li poveri ebbero tale patimento che morirono, di calcolo fatto, circa 60 000 in quelle due province: ciò che fu accertato dal presidente d’Amico, che vi fu mandato apposta.

Dunque, decine e decine di migliaia di morti, e danni e lutti senza fine . […]

 

AGUSTO PLACANICA

Da “Storia della Calabria” – Donzelli

Foto: RETE

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