La città greca esclude le donne

La città greca rappresenta la realizzazione perfetta di un progetto politico e sociale che esclude le donne.

A partire dal VII secolo, come è noto, le città greche cominciarono a darsi le prime leggi scritte, opera di più o meno leggendari personaggi. E fra queste città, come è altrettanto noto, Atene occupa un posto del tutto particolare.

L’esperienza giuridica ateniese, infatti, è sempre stata e continua a essere considerata paradigmatica dell’esperienza giuridica greca per due ragioni: la quantità dei documenti che consentono di ricostruire la sua storia istituzionale, incomparabilmente più numerosi di quelli relativi ad altre città, e il predominio politico, militare e culturale esercitato sul mondo greco.

Ed è per questo che, pur segnalando la varietà e la diversità dell’esperienza ellenica, parleremo d’ora in poi di “città greca” assumendo Atene a modello esemplare. Sempreché – ovviamente – non si tratti di città doriche: nel qual caso – ove le fonti lo consentiranno – segnaleremo di volta in volta le analogie e le differenze.

A partire dal VII secolo dunque, come dicevamo, la città greca definì se stessa, come comunità politica, attraverso l’esclusione di due categorie di persone, rappresentate dagli schiavi e dalle donne. E se le forme dell’esclusione di donne e schiavi erano giuridicamente diverse, non diversa era la giustificazione teorica di essa: la “natura”, che faceva donne e schiavi rispettivamente diversi dall’uomo maschio e dall’uomo (essere umano) libero.

Fu una “diversità” legata all’appartenenza sessuale, dunque, ciò che impedì alla donna di essere parte della polis (sempre che, ovviamente, ella fosse una donna libera). L’esclusione della schiava, infatti, non era legata specificamente alla sua condizione di donna: “oggetto” e non titolare  di diritti, in quanto parte della componente servile, ella era segnata da una “diversità” che la opponeva ai liberi (uomini o donne che fossero), e la accomunava agli schiavi di sesso maschile.

Delle condizioni di vita delle schiave – dunque – ci limiteremo a segnalare la durezza: destinate, tra l’altro, a soddisfare le esigenze sessuali dei maschi della famiglia, esse potevano in qualunque momento essere vendute, e quindi allontanate dalla famiglia di fatto che avevano eventualmente costituito con un altro schiavo. I loro figli, va da sé, appartenevano al padrone. Una vita difficile – insomma – quella delle schiave. Ma poiché quello che qui ci interessa è il percorso che portò alla emarginazione della donna, in ragione del suo sesso, d’ora in poi ci occuperemo delle donne libere e della codificazione della loro diversità. Di quella “diversità sessuale” che i greci individuarono attraverso i secoli, a partire dal momento in cui Esiodo immaginò una prima donna fatta “di terra e di acqua”, pericolosa e infida, fino a giungere alla costruzione del modello della donna-materia, dotato di un solido e si può dire imperituro statuto teorico da Aristotele.[…]

I primi legislatori

A partire dal crollo dei “palazzi” (posto che per l’epoca micenea la documentazione è troppo scarsa di notizie sul privato per consentire risposte sicure), i greci avevano elaborato e tradotto in rigide norme consuetudinarie un’ideologia che organizzava la vita delle donne attorno alla centralità della loro funzione riproduttrice: ma, rispetto a quanto accadrà nei secoli successivi, con una sorta di elasticità che, nei secoli cosiddetti oscuri, aveva consentito loro una certa libertà di movimento, e il diritto di partecipare (nonostante l’esclusione dalla vita politica) quantomeno ad alcuni aspetti e momenti della vita sociale.

Fu con la nascita della polis che le cose cambiarono, e si avviarono verso la strada che portò, in epoca classica, alla perdita di questa libertà e dei sia pur limitati diritti di partecipazione delle donne. Le occasioni di essere presenti, di vivere accanto agli uomini in alcuni momenti “esterni”, di vedere e conoscere persone e fatti anche al di fuori della cerchia familiare, a partire dal VII secolo cessarono praticamente di esistere, e le donne furono progressivamente confinate non solo negli angusti confini del ruolo domestico, ma anche, materialmente, nelle mura della casa (o meglio di una parte di casa, il gineceo), ormai considerato il loro spazio. Una serie di leggi, infatti, lungi dal concedere maggiori libertà, limitò, a partire dal VII secolo, le poche libertà prima esistenti.

I legislatori che diedero ai greci le prime norme scritte si preoccuparono, in primo luogo, di regolare il comportamento sessuale femminile, mostrando così di considerare assolutamente imprescindibile per la vita della nascente città il rispetto di quella regola fondamentale che era l’organizzazione di un’ordinata riproduzione dei gruppi familiari, e quindi dei cittadini. E a provarlo basterebbe l’esame della legislazione di Draconte, il primo legislatore di Atene, una volta ritenuto personaggio leggendario, ma che oggi si tende, invece, a considerare come figura storica.

Negli ultimi decenni del VII secolo, Draconte diede ad Atene le sue prime leggi, la più importante delle quali, e comunque l’unica pervenutaci, vietò agli ateniesi di vendicarsi privatamente dei torti subiti, come sino ad allora avevano fatto, e stabilì che, a partire da quel momento, chi avesse ucciso un uomo sarebbe stato punito con delle pene (la morte o l’esilio) irrogate da tribunali appositamente istituiti a questo scopo, e diverse a seconda che l’omicidio fosse volontario o involontario. Ma, nel fare questo, stabilì un’eccezione. In deroga ai nuovi, fondamentali principi che segnavano la nascita di un vero e proprio diritto penale, egli stabilì infatti che non potesse essere punito (perché aveva commesso un omicidio dikaios, vale a dire legittimo) chi avesse ucciso l’uomo sorpreso mentre, in casa di un cittadino, intratteneva rapporti sessuali con la di lui moglie, concubina (pallake), se di stato libero, madre, figlia o sorella: sempreché, come già in epoca omerica, costui non pagasse il suo debito sociale offrendo una poine, la cui accettazione era peraltro lasciata alla totale discrezionalità dell’offeso. Vi era insomma, per la nascente polis, un comportamento considerato così grave e inammissibile da indurre a non applicare, a chi lo avesse tenuto, la nuova regola secondo la quale la colpevolezza doveva essere dichiarata da un tribunale e la pena doveva essere irrogata da questo: la moicheia, reato di tal gravita da essere escluso dal campo di applicazione dei nuovi principi.

Ma cos’era esattamente la moicheia?

Non solo nella legislazione di Draconte, ma per tutti i secoli di sviluppo del diritto ateniese era qualcosa di più e di diverso dal comportamento oggi definito adulterio. Moicheia infatti era qualunque rapporto sessuale extramatrimoniale, non solo con donna sposata, ma anche con donna nubile o vedova.

Ma v’è di più, vale a dire vi è un’altra caratteristica della legislazione di Draconte estremamente significativa dell’atteggiamento greco nei confronti delle donne. Con disposizione a prima vista singolare la legge sulla moicheia, mentre consentiva di uccidere l’uomo che aveva commesso adulterio (come, d’ora in poi, per ragioni di comodità, chiameremo il comportamento di chi intratteneva rapporti sessuali proibiti), non autorizzava a uccidere la donna, esposta a sanzioni di tipo diverso, rappresentate più precisamente dal ripudio (se era coniugata) e dal divieto di partecipare alle cerimonie sacre, rafforzato dalla regola secondo la quale, qualora ella vi avesse partecipato, qualunque cittadino avrebbe potuto punirla a suo piacimento, senza peraltro provocarne la morte.

Perché questo silenzio?

Perché, alla città, la sorte della donna non interessava. Per la città, la donna non era un soggetto attivo, un essere che ragionava e che voleva.

A ben vedere, da Elena a Clitennestra, via via, attraverso i secoli, fino a giungere alla moglie di Eufileto (accusato di aver ucciso Eratostene, l’amante di sua moglie, e difeso da Lisia invocando la santità della legge sull’omicidio legittimo), la donna che tradiva il marito era considerata sedotta, più che adultera. In ogni caso, ella era stata corrotta dal moichos: anche se, come la moglie di Eufileto, non era stata solo consenziente, ma partecipe attiva nell’organizzazione della tresca.

Ecco perché la legge non si occupava della donna. Di questa eterna bambina, di questo essere pressoché irresponsabile, dovevano occuparsi, per castigarla, gli uomini del suo oikos. Alla città, interessava solo la sorte del suo amante, il cittadino che aveva violato le regole: esposto, nel  caso non fosse stato sorpreso in flagrante (e quindi non potesse essere ucciso), a un’azione pubblica, la graphe moicheias, che in quanto tale poteva essere esperita contro di lui non solo dal capo dell’oikos cui la donna apparteneva, ma da qualunque cittadino, interessato in quanto tale a che nessuna donna, nella città, infrangesse le regole dell’organizzazione e della morale familiare; ed esposto, in aggiunta, a pratiche vendicative infamanti quali il paratilmos, consistente nella rasatura del pube (che, essendo una pratica femminile, era infamante per un uomo), ovvero la raphanidosis, consistente nella sottoposizione a una violenza sessuale praticata con un rafano. […]

 

EVA CANTARELLA

Da “L’ambiguo inganno” – Feltrinelli

Foto: Rete

 

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