La stregoneria a Roma

 

Il timore e la riprovazione della magia erano vivissimi nella società romana. I letterati, i filosofi e i giuristi non si stancavano di condannare le pratiche magiche come contrarie alla ragione e al diritto. Tuttavia, qui come in Grecia e in Egitto, esisteva una netta distinzione tra due forme di sapienza magica. Da un lato la teurgia, magia ammantata di religione, praticata da uomini illustri dell’antichità, anche non latina, come Zoroastro, Pitagora, Empedocle, Democrito, Ostane, Mosè. Dall’altro la bassa magia praticata da oscure donne, spesso straniere, chiamate sagae, maleficae, veneficae, strigae, striges, anus. Alcuni esempi letterari fanno ben capire il disagio, se non addirittura il ribrezzo, suscitato dai riti delle fattucchiere. Leggiamo una testimonianza di Quinto Grazio Fiacco (65-8 a.C.):

Io con i miei occhi ho visto Canidia, il nero mantello cinto su in vita, lanciarsi, a piedi nudi e capelli sparsi, insieme a Sagana, la maggiore, ululando: il pallore le faceva orrende d’aspetto ambedue. Presero a grattare la terra con le unghie e a sbranare a morsi un’agnella nera; il sangue era versato nella fossa per evocare i Mani, anime che avrebbero dato i responsi. Con sé avevano un pupazzo di lana e un altro di cera […] L’una evocava Ecate, l’altra Tisifone […]. Ma che sto a ricordare una per una le cose: in che modo le ombre, alternando il proprio parlare al parlar di Sagana, emettessero un suono triste e acuto […] e come la fiamma bruciasse più viva struggendo il pupazzo di cera […].

Chi parla, nella satira di Orazio, non è il poeta ma una statua del dio Priapo, la quale riferisce ciò che ha visto nel parco sull’Esquilino, un tempo cimitero per la plebe più miserabile e poi divenuto luogo frequentato da streghe che là si recavano per evocare gli spiriti dei morti. Nonostante il tono scanzonato, Orazio tramanda una serie di credenze del suo tempo, relative alle pratiche stregoniche: l’invocazione a Ecate, patrona dei riti negromantici, e a Tisifone, una delle tre Erinni (per i romani le Furie); il sacrificio di animali e l’offerta del sangue per attirare le anime dei morti; l’uso di oggetti talismanici, di erbe e lacci incantati; la distruzione dei feticci mediante il fuoco per uccidere la persona raffigurata.

Lo stesso Orazio citò nuovamente Canidia e Sagana in uno dei suoi Epodi (letteralmente «incantesimi»). Stavolta le streghe sono descritte mentre stanno preparando gli ingredienti per una magia d’amore: caprifichi selvatici divelti da tombe, uova di rospo viscido sporche di sangue, piume di nottola e così via. Le due streghe sono assieme a due compagne: «la riminese Folia dalla maschile libidine» (in altre parole, lesbica) e l’amica Veia. Qui, il tono del poeta non ha più nulla di comico. Le quattro veneficae sacrificano un fanciullo per strappargli il fegato da usare, in seguito, nella composizione di una pozione d’amore. Ma, prima di morire, il fanciullo lancia verso le streghe una minaccia:

I filtri magici possono stravolgere il lecito e l’illecito, non l’umano destino. Io vi perseguiterò con maledizioni […]. Anzi, quando costretto a perire sarò spirato, verrò furente demone notturno, e ombra vera configgervi le adunche unghie negli occhi, com’è potere dei Mani, assise sui vostri cuori angosciati vi toglierò il sonno col terrore. Voi, inseguendovi da ogni parte pei vicoli, la turba abbatterà a colpi di sasso, oscene vecchie.»

Questo brano, più che un componimento letterario, suona come un vero e proprio atto d’accusa nei confronti di chi praticava la più esecrabile forma di magia: quella che oltrepassava ogni limite di liceità giungendo all’assassinio. Certamente Orazio, con le sue parole, esprimeva l’orrore dei romani di fronte alla magia nera che, sebbene ufficialmente condannata, trovava seguaci presso le classi più povere, ma aveva fruitori in ogni ceto sociale.

Magia fra le tombe

Nella letteratura classica, la descrizione più ampia di un rito stregonesco si trova nel sesto libro della Guerra civile (vv. 413-830) di Lucano, dove il poeta iberico denuncia l’indegna azione di un soldato romano, Sesto, figlio del grande Pompeo. Giunto in Tessaglia, «terra maledetta dai fati», Sesto è agitato dal timore della sconfitta e vuole ottenere presagi sul proprio destino. Perciò si reca da una negromante, «l’efferata Erittone», della quale Lucano si compiace di narrare tutte le malvagità: furti e violazioni di cadaveri, omicidi, infanticidi, e così via. È un brano lunghissimo, pieno di dettagli sanguinari, turpi, osceni, tanto repellenti da risultare irripetibili. In estrema sintesi, Erittone riporta temporaneamente in vita un cadavere, tramite un rito esecrabile, per interrogarlo sul destino di Sesto e, dopo averlo costretto a parlare, lo mette su una catasta e gli dà fuoco.

Vari studiosi si sono domandati se Lucano, e pure suo zio Seneca, avessero mai assistito a un rito negromantico. Può darsi, poiché grazie ad alcuni papiri magici di epoca augustea sappiamo che riti di questo genere erano effettivamente praticati; tuttavia il brano di Lucano è volutamente esagerato per motivi letterari.

Sembra più vicino alla realtà un brano delle Etiopiche di Eliodoro (III secolo d.C.), dove lo scrittore descrive una cerimonia negromantica messa in atto da una vecchia maga egizia. La scena ricorda in molti punti il rito effettuato da Ulisse nell’isola dei Cimmeri per evocare l’ombra dell’indovino Tiresia. La vecchia trascina il cadavere del proprio figlio accanto a una fossa nella quale versa del miele, del latte e del vino. Poi prende una focaccia impastata a forma d’uomo, la incorona d’alloro e di finocchio e la getta nella fossa. Quindi agguanta una spada e la agita in cielo freneticamente mentre rivolge invocazioni alla Luna. Si pratica un’incisione al braccio, ne raccoglie il sangue con un ramo d’alloro e con quello asperge il fuoco. Si china sul corpo del figlio, gli sussurra all’orecchio delle parole magiche e, quando quello comincia a sollevarsi, la strega gli domanda del proprio fratello, senza esitare a usare mezzi di coercizione ancor più violenti. Alla fine il cadavere, orribilmente martoriato, predice la morte violenta dell’indegna madre, che avviene di lì a poco.

L’uso dei cadaveri nei riti magici si ritrova più volte nelle Metamorfosi di Apuleio di Madaura (II secolo d.C.), per esempio laddove lo scrittore descrive la soffitta in cui la maga Meroe svolge le sue cerimonie:

Un lugubre laboratorio con i soliti ingredienti: ogni specie di profumi e d’incensi, placche metalliche scritte in lingua sconosciuta […]; tra l’altro, fan bella mostra di sé membra strappate ai cadaveri dopo il compianto funebre e persino dopo la sepoltura: qua nasi e dita, là chiodi di condannati al supplizio della croce con su dei brandelli di carne, altrove fiale contenenti sangue di giustiziati e teschi recisi […].30

 

Lo stesso scrittore affermava che, a quel tempo, neppure i morti nei loro sepolcri potevano dirsi sicuri, dato che i negromanti si aggiravano fra tombe e roghi in cerca di resti di cadaveri per operare malefici ai danni dei vivi. Esagerazioni letterarie? In Lucano forse sì, ma in Apuleio è lecito vedere chiari riferimenti alla realtà dell’epoca. Com’è noto, lo scrittore conosceva bene la magia, tanto da essere chiamato in tribunale per difendersi da quest’accusa. In altri passi delle Metamorfosi, Apuleio si lasciò certamente andare a fantasie derivate da superstizioni popolari. Tuttavia è fuori dubbio che queste esagerazioni rispecchiassero il timore e la generale riprovazione della società romana nei confronti dei riti stregoneschi.

 

GIORDANO BERTI

Da “Storia della stregoneria” – Mondadori

Foto: Rete

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close