Gli inglesi lo considerano il loro prodotto d’esportazione di maggiore successo.
E hanno ragione.
Secondo una recente indagine della Fifa, la Federazione internazionale del football, oggi nel mondo giocano a calcio 250 milioni di persone, ovvero il 4,1 % della popolazione. Sono bambini, giovani, adulti e. sempre più spesso, donne (10%). Circa la metà non appartiene a nessuna squadra ufficiale, ma gioca per le strade, nelle piazze, sulle spiagge, nelle parrocchie o nei campetti di periferia.
- Uno su tre davanti alla tv
L’altra metà dà vita a un milione e mezzo di squadre che animano i campionati di 204 Paesi: dagli Usa. dove alle 3 federazioni nazionali sono iscritti 18.5 milioni di calciatori, al Belize, dal Ruanda all’Afghanistan, dove il giorno di Natale 2001 più di 3 mila spettatori hanno assistito alla prima partita di calcio dalla fine del regime talebano giocata nello stadio di Kabul, per anni teatro di esecuzioni capitali. Mentre alla finale dei Campionati del mondo del 1998 hanno assistito 2 miliardi di persone, un terzo della popolazione del pianeta. Nessun altro sport è così praticato e guardato, nessuno può vantare un’analoga organizzazione planetaria, nessuno un numero di appassionati e tifosi così elevato.
E anche il giro d’affari è strepitoso: nella sola Inghilterra, dove si gioca il calcio più ricco del mondo, il fatturato del pallone è stato nel 2000 di quasi 1.8 miliardi di euro. 3.400 miliardi di vecchie lire. Che cosa ha consentito al calcio, in 140 anni di storia, di diffondersi in ogni angolo della Terra? E perché la stessa fortuna non è toccata al cricket o al rugby, anch’essi di antiche origini britanniche? Insomma, che cosa rende il soccer (vocabolo coniato dal giocatore inglese Charles Wreford Brown abbreviando le parole Association Football) lo sport più amato? Ecco le risposte di sociologi, storici e antropologi.
- Pseudo-caccia
La tesi più celebre è forse quella di Desmond Morris, zoologo e antropologo inglese. Secondo Morris, il calcio affonda le proprie radici nella preistoria «quando i nostri antenati vivevano e morivano come cacciatori di animali selvatici». Fu allora che si compì buona parte dell’evoluzione dell’uomo e si svilupparono velocità, agilità, resistenza e mira. In seguito quando l’agricoltura e, più tardi, l’urbanizzazione sostituirono gli antichi stili di vita, l’uomo si accorse di non poter più rinunciare alla caccia, che per millenni aveva rappresentato una questione di sopravvivenza.
Furono così proposte varie alternative: dalle carneficine che venivano ospitate nelle arene dell’antica Roma alle ancora attuali corride spagnole.
Nell’Ottocento, la nascita delle società per la protezione degli animali contribuì a far cessare buona parte di questi spettacoli cruenti. «Lasciando un gran vuoto» dice Morris «e preparando la scena per un nuovo capitolo nella storia della pseudo-caccia: il gioco del calcio».
- Moderni gladiatori
Dice il sociologo Sabino Acquaviva: «Nella caccia vi sono sia la componente aggressiva sia quella sanguinaria. Ma poiché nella società in cui viviamo la violenza va evitata, a beneficio dell’intelletto, ecco che è necessario ricorrere alla caccia per analogia. E come un tempo esistevano i gladiatori, i tornei medioevali o la lotta contro il toro, oggi c’è il calcio, che è semplice, aggressivo e per giocarlo bastano un pallone e 22 persone».
Il calcio come metafora della caccia, dunque, in cui due squadre «tentano non di distruggersi reciprocamente» continua Morris «ma solo di superare la difesa avversaria, che è un ostacolo, e di uccidere simbolicamente la preda, calciando la palla, ovvero l’arma (che una volta era la lancia, il sasso, la freccia) in rete».
E, per spiegare perché il soccer abbia surclassato ogni altro sport, aggiunge: «II calcio conserva gran parte degli elementi della caccia primordiale, mentre altri sport ne riprendono solo alcuni». Bowling, biliardo o tiro con l’arco, per esempio, si limitano a ripeterne il movimento culminante, ovvero il tiro al bersaglio, che invece manca alle corse o ai salti. E se il tennis è privo della struttura di gruppo tipica delle arti venatorie, e il basket è molto tecnico e ripetitivo, baseball e rugby sono troppo schematici e talvolta statici.
E l’hockey? Per Morris usa un’arma troppo piccola (la palla o il disco) e, soprattutto, obbliga i giocatori a una posizione ricurva, impedendo al pubblico di identificarli come uomini valorosi che inseguono la preda a testa alta. Questa, secondo Morris «è l’unica spiegazione dell’enorme successo del calcio».
- Guerra tra contadini
L’interpretazione di Morris, che risale ai primi anni ’80, lasciò scettici molti studiosi. Secondo Bruno Lubis. giornalista sportivo ed esperto di tradizioni calcistiche, «considerare questo sport come una metafora della caccia è senz’altro limitativo. Molti, piuttosto, hanno preferito attribuire alle partite di calcio il significato di una guerra, in cui il gol, più che all’uccisione della preda, corrisponde alla soppressione dell’avversario, alla sua umiliazione». Ipotesi, questa, che sembra confermata anche dalle caratteristiche dei precursori del calcio: lo storico americano Richard Mandell, per esempio, racconta di giochi con la palla praticati in mezza Europa fin dal tardo Medio Evo. Nei giorni di festa, squadre di contadini (formate anche da 50 o 100 persone) si affrontavano nelle campagne cercando di spingere coi piedi un sacco di paglia o una vescica di animale fino al villaggio della squadra avversaria. Era un gioco che divertiva e scaldava i muscoli durante l’inverno, ma non era raro, continua Mandell, che sul terreno rimanessero morti e feriti, in particolare quando a scontrarsi erano borghi con antichi rancori o inimicizie.
Il giornalista Gianni Brera, uno dei maggiori conoscitori italiani del pianeta calcio, scomparso nel 1992. propose una diversa interpretazione: i portieri, scrisse, sono i custodi «di quello che il simbolismo del gioco identifica con il sesso di nostra madre, moglie, sorella, figlia. L’avversario tenta di profanarlo come noi a nostra volta tentiamo dalla parte opposta. Il gol è dunque un imperioso atto di stupro, una presa violenta o astuta di possesso». Ma Brera non si fermò qui. Contrariamente a Morris, infatti, il giornalista e scrittore sospettava che il piacere che si prova giocando a calcio derivasse dalla volontà inconscia di rivalutare i piedi, che milioni di anni fa erano le “mani posteriori”. Scrisse Brera: «Conserviamo nel sangue la memoria biologica di questa maturazione: il ridare alle parti più basse di noi la dignità di mani è motivo di esaltazione ed è bello servirsene per far volare un pallone rigonfio d’aria». E lo stesso si può dire della fronte che, come i piedi, è fondamentale nel calcio, ma pressoché inutilizzata in tutti gli altri sport.
- Basta una palla
Antonio Papa, storico contemporaneo all’Università di Salerno, mette invece l’accento sull’aspetto sociale del fenomeno: «Nella seconda metà dell’800 si ebbe un considerevole miglioramento del tenore di vita della classe dei lavoratori inglesi, cui vennero concessi la riduzione dell’orario e il pomeriggio festivo del sabato. E questo rese accessibili i nuovi svaghi anche ai ceti operai delle città, che furono rapidamente conquistati dal calcio, dove non servono particolari caratteristiche fisiche, come nel basket o nella boxe, né attrezzature o strutture inconsuete». I nuovi mezzi di comunicazione contribuirono a quel punto a diffondere il gioco del pallone prima in Europa e poi nel resto del mondo. Con l’eccezione del Commonwealth e degli Stati Uniti, dove il calcio rimase paradossalmente alle porte. Ma una spiegazione c’è: «Gli intellettuali inglesi del passato» dice Papa «hanno spesso avuto pessime opinioni del football, che consideravano plebeo». Si preferì così esportare gli aristocratici rugby o cricket, rimasti confinati nei college, senza coinvolgere i ceti bassi. Ipotesi verosimile, certo. Ma, secondo Papa, non sufficiente: «Nello straordinario successo del calcio c’è anche qualcosa di magico».
Michele Scozzai
Da “Focus” n.116 giugno 2002
Foto: Rete