Ulisse tra i mangiatori di loto

Ulisse insegue Circe

 

Demodoco ha terminato il suo racconto. Il re Alcinoo si rivolge al suo ospite, del quale non conosce ancora l’identità. E gli chiede di parlare di sé e della sua vita.

E Ulisse racconta: un lungo racconto, una serie di avventure – dieci, per la precisione – che sono rimaste nel patrimonio dell’Occidente come le favole più note e più belle che si possano raccontare.

Quando Ulisse prende a parlare, infatti, ha inizio la parte dell’Odissea (composta dai canti nono-dodicesimo) nella quale i racconti folklorici – presenti, anche se in minor misura, in tutto il tessuto del poema – svolgono un ruolo determinante nella composizione dei diversi episodi, diventando elementi preziosi ai fini della comprensione di questi.

Sono racconti ai nostri occhi assolutamente fantastici, in cui si incontrano orchi, mostri, giganti, maghe e figure semiumane, a seconda dei casi dalle buone o cattive intenzioni. Nel raccontare le sue avventure Ulisse ripropone storie antiche, che correvano da secoli sulla bocca dei marinai, favole diffuse ben oltre le rive del Mediterraneo, e racconti popolari che tornano attraverso secoli e continenti.

Ma in Omero queste favole sono ritoccate, modificate, rimaneggiate. Come sappiamo, l’Odissea, come del resto l’Iliade, pretende di raccontare storie vere, di personaggi realmente esistiti. I racconti folklorici, dunque, devono essere collocati in un mondo reale, in modo da apparire credibili, o quantomeno non troppo incredibili. E questo fa Omero, appunto, rielaborando gli elementi magici dei racconti popolari, e utilizzandoli (e questo è forse l’aspetto che più ci interessa) nel quadro di una rappresentazione che, come sappiamo, aveva, accanto a quella ricreativa, una funzione altamente pedagogica.

Le avventure raccontate da Ulisse, insomma, pur riproducendo temi del folklore, solo a prima vista possono sembrare prive di ogni riferimento alla realtà sociale dell’epoca. A ben vedere, anch’esse vengono usate dal poeta per trasmettere al suo pubblico alcuni fondamentali insegnamenti civici e morali: come risulta dal rilievo che Omero sceglie di dare ad alcune di queste avventure rispetto ad altre, che pure, dal punto di vista favolistico, non sono né meno interessanti né meno belle.

Perché, ad esempio, a un episodio affascinante come quello dei Lotofagi sono dedicati solo 25 versi, ai Lestrigoni (giganti cannibali non meno temibili dei Ciclopi) solo 53, e ai Ciclopi e a Polifemo, invece, ben 416 versi, che occupano quasi l’intero nono canto?

Apriamo una breve parentesi sui Lotofagi: a ben vedere, meritano più attenzione di quella che Omero dedica loro.

Doppiato il capo Malea, all’estremo angolo sud-est del Peloponneso, le onde e la corrente, deviando il corso della nave di Ulisse, lo portano, il decimo giorno, alla terra “dei mangiatori di loto, che mangiano cibi di fiori”.

Per conoscere gli abitanti del luogo, Ulisse manda alcuni compagni, e i mangiatori di loto si rivelano personaggi miti, gentili, che, dice Ulisse,

… non meditarono la morte ai compagni

nostri, anzi, diedero loro del loto a mangiare.

Ma chi di loro mangiò del loto il dolcissimo frutto,

non voleva portar notizie indietro e tornare,

ma volevano là, tra i mangiatori di loto,

a pascer loto restare e scordare il ritorno.

(Od., 9, 92-97)

La storia, inutile dirlo, suscita molte curiosità: chi sono questi personaggi, che frutto è il loto, perché chi ne mangia dimentica tutto, la propria vita, il proprio passato, e si perde in un eterno presente senza ricordi, senza domande, senza pensieri?

Singolarmente, le fonti antiche sono estremamente laconiche al riguardo. Sostanzialmente, dei Lotofagi parla solo Erodoto (Storie, 4, 176-178), secondo il quale essi abitano la costa della Tripolitania, tra i Gindani e i Macli (4, 183).311 Gindani, egli aggiunge, sono noti per un singolare costume delle loro donne: ogni volta che si accoppiano a un uomo, legano un bracciale di cuoio alla caviglia. E chi ha più bracciali gode della più alta considerazione sociale. Essendo stata amata da più uomini, è certamente la migliore.

Quanto ai Lotofagi, si cibano esclusivamente del frutto del loto, grande all’incirca come quello del lentisco e dal sapore dolcissimo, simile e quello dei datteri, dal quale fanno anche vino.

Infine, di fiori di loto si cibano anche i Macli, loro vicini, ma in minor quantità: forse, vuoi dire Erodoto, questi non si cibano “esclusivamente” di loto.

Superfluo sottolineare, a questo punto, che Erodoto non è attendibile: né a proposito dei Lotofagi, né a proposito degli altri popoli, dei quali racconta le cose più stravaganti: nel paese dei Garamanti, ad esempio (dal cui territorio, egli dice, si giunge a quello dei Lotofagi camminando per trenta giorni) ci sono buoi che pascolano a ritroso. Avendo le corna curvate in avanti, se non camminassero a ritroso finirebbero con le corna conficcate nel terreno (Storie, IV, 183, 2).

E qui, purtroppo, con il fantasioso Erodoto, si esauriscono le informazioni antiche sui Lotofagi. Per trovarne altre dobbiamo aspettare alcuni secoli, e leggere la voce Ghermara nel Grande lessico geografico di Aristofane di Bisanzio, ove troviamo citato Aristotele che, nei Memorabilia, avrebbe detto che i Lotofagi dormivano sei mesi all’anno: ma i Memorabilia non sono di Aristetele. E il loro autore, non diversamente da Erodoto, da informazioni del tutto inattendibili. Così come inattendibili sono le ipotesi, anche moderne, di individuare l’alimento capace di produrre gli effetti descritti da Omero: secondo alcuni, ad esempio, l’hashish o la marijuana.

Ma il fatto è che, oltre a essere inattendibili, questi tentativi sono del tutto inutili: l’incontro con i Lotofagi, infatti, altro non è che un tema del folklore antico e moderno, che rappresenta l’incontro con la morte.

Andare in una terra lontana e condividere il cibo degli abitanti significa passare per sempre nel regno dell’aldilà, come dimostra chiaramente (e notoriamente) – per la Grecia – la storia di Demetra, la dea delle messi, e di sua figlia Kore, la ragazza.

Mentre si trovava su un bel prato fiorito, leggiamo nell’Inno omerico a Demetra, Kore viene rapita da Ade, signore dell’Oltretomba. Dopo averla cercata disperatamente e invano, Demetra, finalmente, viene a conoscenza della ragione della scomparsa, e minaccia di non consentire mai più che dalla terra crescano frutti se la figlia non le verrà restituita.

Zeus, allora, invia un messaggero da Ade, ordinandogli di consentire a Kore di tornare sulla terra. E Ade finge di obbedire: dopo aver detto a Kore (divenuta dea dell’oltretomba, con il nome di Persefone) che le avrebbe concesso il ritorno alla luce del sole, Ade le offre subdolamente il seme del melograno, dolce come il miele. E Persefone lo mangia, segnando la propria condanna. A questo punto, ella non può essere restituita alla madre: avendo consumato il cibo offertole, ella appartiene all’Ade. Tutto quello che Zeus può ottenere è che ella si divida fra i due mondi, trascorrendo ogni anno alcuni mesi sulla terra, e tornando sottoterra per quattro mesi. I mesi dell’inverno, in cui la terra non da frutti.

Torniamo all’Odissea. I mangiatori di loto non esistono, l’incontro con loro è una metafora: quantomeno nel folklore. Ma Omero adatta il tema al personaggio di Ulisse e alla sua storia. Ed ecco che il racconto subisce una modifica tutt’altro che trascurabile. Adattato a Ulisse, il racconto ha un lieto fine: sia pur riluttanti, sia pur costretti da Ulisse, i compagni che hanno mangiato il loto tornano alla vita: Ulisse sconfigge persino la morte.

 

EVA CANTARELLA

Da “Itaca” – Feltrinelli

Foto: RETE

 

Ulisse e le sirene

Di qui per nove giorni fui spinto da venti nemici

sovra il pescoso mare. Nel decimo, infine, giungemmo

dei Lotòfagi al suolo, che cibano fiori di loto.

Qui dalle navi al lido scendemmo, attingemmo dell’acqua,

ed i compagni presso la nave imbandiron la mensa.

Quando rempiuti poi si furon di cibo e di vino,

io dei compagni spedii, che andassero a chieder notizie,

che gente fosse quella che pane in quei luoghi pasceva:

due dei compagni scelsi, per terzo v’aggiunsi l’araldo.

Súbito andarono, e giunser vicino ai Lotòfagi. E questi

non macchinarono danno veruno ai diletti compagni:

anzi, cibare i frutti soavi li fecer del loto.

E chi d’essi gustava quel frutto piú dolce del miele,

piú non voleva tornare, recar non voleva il messaggio;

ma rimanere lí volea coi Lotòfagi, e loto

perennemente gustare, né darsi pensier del ritorno.

Io li condussi a forza, che pianto versavano, al lido,

li trascinai su le navi, li spinsi e legai sotto i banchi.

Poi diedi súbito l’ordine agli altri diletti compagni

d’entrare senza indugio nei rapidi legni, ché alcuno

piú non cibasse loto, ponendo il ritorno in oblio.

Essi v’entrarono súbito, ai banchi si assisero in fila,

e bianco, sotto i colpi dei remi, fu il mare di spuma.

Odissea_(Romagnoli)/Canto_IX, vv. 81-103

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