Anima mundi

 

L’idea che sta alla base della psicanalisi è sempre stata quella di partire dal singolo per arrivare alla civiltà: solo cambiando la coscienza del singolo si può curare il disagio della civiltà. Vogliamo una medicina migliore? Psicanalizziamo i medici. Vogliamo edifici migliori? Psicanalizziamo gli architetti. In ogni caso si parte dai singoli: è un dogma per i freudiani come per gli junghiani. Ma credo che lavorare solo su se stessi, o al massimo sui propri rapporti personali, non sia affatto sufficiente. Se le stanze in cui viviamo hanno una forma sbagliata e sono costruite con materiali scadenti; se indossiamo vestiti sintetici e respiriamo aria inquinata, con un contenuto ionico sbagliato; se dormiamo tra lenzuola sintetiche studiate per non doverle stirare invece che per aiutarci a dormire bene, e i cibi sono alterati, le conversazioni insulse e le città rumorose… Se il mondo intero è ammalato, non possiamo illuderci di guarirlo instaurando un buon dialogo terapeutico e andando in cerca dei significati profondi. Non è più una questione di significato, ma di sopravvivenza. […]

Dobbiamo renderci conto di dove siamo e di dov’è la nostra coscienza. Viviamo nell’idea di essere coscienti e crediamo che tutto ciò che è al di fuori della nostra coscienza sia morto o almeno privo di anima; gli stessi animali sarebbero privi di anima, come insegnavano Descartes e La Mettrie. Questa è anche una tipica idea cristiana: solo gli esseri umani adulti e battezzati avrebbero un’anima, una psiche, una soggettività (nozioni cristiane standard, almeno finché non si tocca il tasto dell’aborto!).

Anche secondo Kant la soggettività è in noi e il mondo materiale, esteso, è «inorganico», morto, privo di soffio vitale. Alla fine, abbiamo collocato anche noi stessi in quanto corpi «là fuori», nel mondo morto e inorganico. I nostri stessi corpi! È dal tempo dell’anatomia di Vesalio che studiarne e oggettiviamo il corpo per mezzo del cadavere: il corpo come meccanismo suddiviso in apparati; così, negli ultimi quattro secoli, la medicina ha reso il corpo sempre più cadaverico. Non c’è da stupirsi se ricorriamo sempre più alle macchine per «capire» le nostre malattie, per leggere i nostri corpi. Solo le macchine possono capire il nostro corpo perché è diventato anch’esso una macchina. Ora, tutto questo ci è familiare grazie a Foucault, a Van den Berg, Merleau-Ponty.

Significa che il solo posto in cui ci sono un soggetto, una consapevolezza, un osservatore che riflette, un Io è dentro la nostra testa, dentro i nostri occhi. Come nella teologia Dio è fuori dalla Creazione, del tutto trascendente, così l’uomo, fatto a immagine di Dio, è anch’egli trascendente e tutto quello che c’è là fuori, per strada, è oggettività morta. Qualcosa — un albero — può essere degno di amore in quanto opera di Dio, ma di per sé è privo di anima.

Tutto questo ha prodotto un incredibile isolamento delle persone, della coscienza, e una terrificante distruzione di oggetti – piante, animali, laghi, fiumi, suolo e tante altre cose. Se gli oggetti sono già morti, perché non distruggerli? (Il fatto che molti esseri viventi siano più longevi di noi, o che non si lascino annientare facilmente, non è bastato a indurci a rispettarli. Nella nostra Weltbild [visione del mondo] continuano a essere morti. Vede quanto è grande la potenza delle idee? Non si lasciano scalfire nemmeno da quello che vediamo ogni giorno; nemmeno dalle smentite più lampanti.)

Siamo oltre l’ecologia. Non si tratta solo di «equilibri naturali », di salvare il verde. Questa è retorica della Grande Madre. Parlo delle cose, delle cose. Tavoli, automobili, scarpe, lattine, oggetti di plastica. Dobbiamo aprire la mente alla possibilità che l’anima sia ovunque. Non possiamo trascurare gli oggetti e amare solo la natura. Bisogna riesaminare l’idea di anima prima di riesaminare l’idea di oggetto. Se potessimo accompagnare l’anima al di là della psicanalisi, del Vaticano, di Kant e Descartes e della nostra personale esperienza — al di là di tutti i compartimenti stagni in cui è stata intrappolata o delimitata —, e restituirla al mondo come l’anima mundi del platonismo, anche gli oggetti tornerebbero animati. Quando Platone parlava di «psiche», intendeva due cose allo stesso tempo: l’«anima» nel nostro senso, e l’«anima» nel senso di un mondo oggettivo al di là del «me», e in cui io stesso sono situato. È l’anima del mondo, che io interpreto come l’idea che in un modo o nell’altro tutto sia animato.

Come ce ne accorgeremmo?

Guardo quel portacenere… Che tipo d’anima potrebbe esserci in un portacenere, in un sasso, nella stringa di una delle mie scarpe? Credo che il solo modo in cui possiamo immaginare l’anima di un oggetto è come una forma, una figura, un volto. Un’immagine che rivela se stessa, la propria immaginazione, e quindi ha una soggettività. Non intendo dire che una stringa abbia sensazioni, ricordi, sentimenti, che le piaccia essere annodata e non sopporti di essere slacciata e sbattere qua e là — anche se non posso escluderlo. Non ne so nulla. Ma non è questo il punto, non sto facendo dell’antropomorfismo. Semmai penso che un oggetto sia un offrirsi fenomenologico, con una profondità, una complessità, uno scopo in un mondo di relazioni, con una memoria, una storia – e quindi con una soggettività. E che se lo guardassimo in questo modo potremmo cominciare a udirlo.

Non è nemmeno animismo primitivo – l’idea che ogni cosa abbia un proprio demone. È una specie di approccio estetico alla maniera in cui le cose si presentano, e al fatto che in quanto si presentano hanno a loro modo una forma, un’anima, che parla alla nostra immaginazione. Guardare le cose in questo modo è un po’ come fare una mescolanza di anima mundi e pop art: l’idea che una lattina di birra, o un furgone, o un segnale stradale non sono pezzi di materia senza vita né significato, ma realtà con un volto e qualcosa da raccontare.

 

JAMES HILLMAN

In “Il linguaggio della vita” – BUR

Foto: Rete

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