Dopo la rivolta di Verbicaro del 1911: le tristi giornate dei fuorusciti

 

Dopo la sommossa, Verbicaro era apparentemente calma, perché gli abitanti si erano rifugiati nelle campagne, trascinandosi dietro gli ammalati.

La popolazione fuoruscita rappresentava, quindi, un notevole pericolo perché diffondeva l’epidemia anche nella campagna. Sull’argomento il Barzini scriveva:

Dispersa per i monti, esasperata, scacciata da tutti i paesi vicini, essa è decisa a non tornare al suo villaggio nella orrenda persuasione che la presenza di funzionar! e di soldati rappresenti precisamente l’evidenza che si voglia avvelenare la popolazione.

A nulla giova l’aver richiamato queste quattromila persone alle loro case. Sinora la paura fu più forte della disperazione ed esse si nascosero, ma col passare del tempo, la mancanza di pane le spinge a tentare imprese brigantesche.

Alla notte montano verso Verbicaro, che appare costellata da fuochi di bivacchi, intorno ai quali si trovano adunanze armate.

In un articolo precedente, il Barzini aveva sottolineato:

per paura del colera i paeselli si trattano come città avversarie in guerra, temendo ognuno che gli abitanti dell’altro entrino a fare da untori, si vigila alle porte. Il 30 agosto due povere donne di Verbicaro si avvicinarono a Scalea; furono minacciate a sassate. Se, fra le mura di un paese, veniva sospettata la presenza di un estraneo, la campana suonava a martello ed il popolo accorreva armato. Proprio in pieno Medio Evo! E questa era l’Italia al giubileo del suo Risorgimento!

Sempre sui fuorusciti, il Barzini raccontava:

il 2 settembre, di sera, furono uditi dei colpi di fucile rumoreggiare lontano nella calma notturna. Erano certamente i segnali dell’adunanza. Infatti, nelle prime ore della mattina una numerosa banda armata discesa dalla montagna tentò di risalire alla stazione di Verbicaro. Erano circa le ore 2,45 quando un manovale uscì sul piazzale della stazione.

Egli alla luce delle stelle, intravide una piccola massa di uomini, che si muovevano in perfetto silenzio. Erano scalzi. Egli gridò: «Chi è?», ma nessuno rispose. Entrato nella stazione prese il fucile. Un aggruppamento di forse venti individui era vicino al magazzino delle merci, dove si trovava la farina e la pasta. Il manovale esplose dei colpi in aria per dare l’allarme alla stazione. Immediatamente gli assalitori risposero con alcuni colpi.

Fortunatamente nella stazione erano due carabinieri, balzarono fuori intimando ai briganti di ritirarsi. Ma la risposta fu una ripresa della fucileria, che durò, secondo quanto dicevano il Capostazione Barducci e l’applicato Mancini, circa dieci minuti.

I carabinieri aprirono il fuoco, ma l’oscurità era profonda. Gli assalitori fuggirono. I carabinieri tentarono di inseguirli, ma fatte poche centinaia di passi, i malviventi si erano dileguati come per incanto nelle tenebre e la campagna era tornata silenziosa, deserta

Sull’argomento, continuava ancora il Barzini:

Nel conflitto tra carabinieri e banda armata, uno degli assalitori è rimasto, senza dubbio, ferito. Si sono trovate, infatti, tracce di sangue che cominciano a poca distanza dal magazzino delle merci, a piccola velocità, nel punto dove si raggruppavano i fuoriusciti durante la loro breve resistenza a colpi di fucile e rivoltella.

Per alcune decine di metri le tracce vermiglie indicano la direzione seguita dai fuggiaschi; poi cessano in una pozza di sangue la quale indica che il ferito, accortosi di lasciare tracce, si è fermato alcuni istanti a fasciarsi, forse con qualche indumento.

L’inviato speciale del «Corriere della Sera», nel considerare la penosa vita dei fuggitivi proponeva una soluzione al problema:

Altri feriti ignorati si trovavano sparsi per la campagna, colpiti dai carabinieri durante la sommossa a Verbicaro, e la cui presenza era provata da indizi vaghi. Un mulattiere di Grisolia, infatti, aveva sorpreso un vecchio di Verbicaro sulla vetta del monte intento a raccogliere legna. Alla domanda che cosa facesse, rispose che era per la gente ferita domenica. In tutte le stazioni è stata rinforzata la guardia notturna e a Verbicaro Scalo furono mandati altri carabinieri da Scalea e dal paese stesso di Verbicaro.

Intorno ai miserabili abitanti fuggiti per la campagna, si è distesa una catena di vigilanza. Non sono lasciati avvicinare a nessun villaggio. Vengono respinti ovunque come lebbrosi. Si ignora come vivano o come muoiano. Essi hanno portato con loro dei malati ai quali sono mancate le cure più elementari. E si tratta di tre o quattromila persone scomparse così nelle forre e nei burroni, fra le macchie ed i vigneti, dispersi da un terrore che per essere assurdo non è meno doloroso.

Ed è a questa povera gente che urge provvedere, se si vuole evitare un seguito di sofferenze e di violenze delle quali la regione intera sente la minaccia; senza contare il pericolo che l’infezione si allarghi. Per richiamare a Verbicaro i suoi abitanti non c’è che un mezzo: dopo una buona disinfezione delle case e delle strade ritirare dal paese medici, autorità, soldati e carabinieri. Non vi è altro da fare. Tutto questo movimento appare ai fuggitivi come può apparire alla selvaggina rintanata il va e vieni della caccia.

Soltanto l’abbandono può rassicurare la loro feroce umidità per la quale tutti i nostri soccorsi sanitari rappresentano precisamente il più tangibile ed il più mortale dei pericoli.

Sui fuorusciti commentava «La Tribuna»:

La popolazione di Verbicaro che si è data alla latitanza deve trovarsi in una condizione indescrivibilmente orrenda. Molta gente ammalata non ha di che nutrirsi o si nutrisce male. Il fresco della notte, tra i monti, rende ai fuggitivi sempre più dura e più penosa l’esistenza. Il colera decima i profughi: gli ammalati privi di medicamenti e di assistenza cadono per le balze dei monti e più non si rialzano. Ma il terrore della punizione è più forte di questi disagi e di questa situazione orrenda di cose.

MARIA PIA LORENZO

In “Il colera sovversivo – Le rivolte di Verbicaro (1855 e 1911)” – Edisud

Foto: RETE

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