Della natura delle fate

 

Nel cuore dei boschi, nei luoghi selvaggi, presso alcune fontane, all’ombra di vecchi alberi, un tempo si potevano intravedere donne alte, vestite di bianco, « dotate di bellezza sovrumana » e così luminose « che guardandole in viso si sarebbe creduto di vedere una luce attraverso una lanterna di corno». Spesso le si scorgeva, intente a ballare in una radura, là dove si tracciavano « cerchi di fate », tracce indubitabili del loro passatempo preferito, ma che per noi sono ormai solo anelli formati dal micelio di certi funghi.

In Bretagna, le fate si facevano vedere preferibilmente nei dintorni dei dolmen, dove parevano essersi rifugiate. Sembra che le loro apparizioni siano state relativamente frequenti, fino all’inizio del diciannovesimo secolo se si tiene conto del fatto che i testimoni che osavano parlarne erano molto rari. In genere, le fate avevano con gli umani rapporti di buon vicinato, all’occorrenza rendevano loro qualche servizio, facendo ritrovare gli oggetti smarriti, mettendo a loro disposizione la propria conoscenza dei segreti dei « semplici ». «Però erano suscettibili e si vendicavano quando qualcuno disubbidiva loro o le insultava». Ma se si dimostrava loro la deferenza cui avevano diritto, erano sempre pronte a venire in aiuto di coloro che glielo chiedevano; così venivano chiamate le «buone signore » o le «dame bianche », per via del loro abbigliamento.

Eppure a volte venivano accusate di rapire i bambini o di cercare di unirsi a uomini per averne. « II loro scopo, dicono i contadini, è quello di rigenerare la loro razza maledetta: per raggiungerlo, violano tutte le leggi del pudore, come le sacerdotesse dei Galli». Ma a partire dal diciottesimo secolo, le fate cominciarono a scomparire, anche dalla Bretagna; non era solo il progresso dei « lumi » a cacciarle, bensì soprattutto lo sviluppo della rete stradale che cominciava a quadrettare il paese, riducendo parallelamente i luoghi appartati e selvaggi.

Parche Moire e fate

Nelle fate, si è voluta vedere la sopravvivenza delle tre Parche romane, cioè delle Moire greche, dee lunari vestite di lino bianco: Cloto, dal fuso della quale nasce il filo della vita, Lachesi, « quella che misura il filo» con la sua bacchetta, e Atropo, «quella cui non si può sfuggire », che lo taglia con le sue forbici. A Roma, « le tre Parche erano rappresentate nel Foro da tre statue comunemente dette le “tre fate”, tria fata». Certo è che la parola fata viene appunto da fata, plurale di fatum, il Destino, e ha dato fada in provenzale, fade in guascone, oltre alle «fadettes» o «fayettes», «fadets» o «farfadets» delle campagne francesi. E neppure si può negare che il fuso di Cloto e la bacchetta di Lachesi si incontrino anche tra le fate; una delle loro principali occupazioni consiste appunto nel filare e lo strumento del loro potere è la bacchetta magica. Non si vedono mai, viceversa, con le forbici di Atropo, e questo particolare è significativo: le fate sono divinità della vita, non della morte.

Le fate e i Celti

Ma le Parche costituiscono un’ascendenza assai lontana, le fate sono di origine celtica e conosciamo le loro dirette antenate, le Fatae dei Galli, incontestabili eredi delle Parche, ma che più o meno si confondono con le Matres o Matrones. Queste ultime, rappresentate in numero di tre, spesso con un lattante in grembo, dee preceltiche della maternità, appaiono come le antenate delle « sages-femmes » germaniche, personificazione dell’inesauribile forza creatrice della natura e sopravvivenza dei culti neolitici della Terra-Madre, dell’acqua fecondatrice e della luna. Le fate discendevano anche dalle Sulevìae, divinità silvestri misteriose, ma delle quali è attestato il culto dalla Dacia alla Gran Bretagna.

Le fate, che il più delle volte sono di origine mitica, sembrano però, almeno in alcuni casi, esseri reali che vivevano appartati, in luoghi rimasti selvaggi, e non si facevano vedere quasi mai perché avevano interesse a farsi dimenticare.

A studiare obiettivamente quelle testimonianze (le testimonianze, numerose e isolate, raccolte nel corso del diciannovesimo secolo), delle quali non si può mettere in discussione la disinteressata sincerità, la loro concordanza su quanto concerne l’abitazione, i gusti, il modo di fare e il rimpianto suscitato dall’allontanamento delle «buone signore», delle nostre «buone madri le fate», come se si trattasse di una categoria di persone realmente esistita, si è tentati di cercare alla credenza delle fate una spiegazione storica, umana.

Alcuni elementi riferiti dai testimoni rendono infatti abbastanza verosimile che molte fate, se non tutte, fossero tardive discendenti delle antiche sacerdotesse dei Galli che avevano preferito la solitudine alla conversione. « Dovettero rifugiarsi in luoghi isolati, venire ad abitare terreni, grotte, dolmen, dimore già esistenti», dato che si trattava delle antiche residenze delle divinità pagane, delle quali quelle maghe mantenevano in segreto il culto, protette dal timore superstizioso ad esse collegato. Il poco che sappiamo delle druidesse, vestite di bianco — da cui derivano appunto le «bianche signore » —, che detenevano segreti terapeutici vegetali, praticavano diverse forme di mantica, proferivano maledizioni magiche contro i nemici e — stando alla testimonianza di Strabone che nel primo secolo parla di una comunità di donne stabilite su un’isoletta alla foce della Loira — si abbandonavano a volte a un comportamento paragonabile a quello delle Menadi, non fa che confermare questa ipotesi. Benché perseguitate dai Romani, queste profetesse galle sembra godessero ai loro occhi di un certo prestigio, in epoca imperiale anche abbastanza tarda, fino alla fine del terzo secolo.

Secondo Lampredo, avrebbero annunciato ad Alessandro Severo la sua morte. E Aureliano, stando alla testimonianza di Vopisco, interrogò le gallicanas druydas sul destino dei suoi discendenti.

Le fate — scriveva nel 1843 A. Maury — ci appaiono come le ultime e più persistenti di tutte le vestigia che il druidismo ha lasciato impresso negli animi. Sono diventate come un fascio cui si collegano tutti i ricordi dell’antica religione dei Galli, come il simbolo del druidismo abbattuto dalla croce, e il loro nome è rimasto collegato a tutti i monumenti del culto druidico.

Essendo molto poco numerose, isolate e, tutto sommato, inoffensive, le ultime sacerdotesse non furono perseguitate dal clero. Ma loro lo temevano profondamente, tanto da non sopportare il suono delle campane, e gli serbavano rancore perché le aveva «confuse con gli spiriti delle tenebre ». I preti si limitavano a esorcizzarle da lontano. Il parroco di Domrémy andava tutti gli anni a cantare il Vangelo presso l’« Albero delle fate», allo scopo di «cacciare le fate cattive», il che lascia supporre che potessero esisterne di buone.

Come è noto, i giudici accusarono Giovanna d’Arco di aver ubbidito alle fate e non, come da lei affermato, ai santi che le avevano parlato accanto a quell’albero sacro.

Fino al diciottesimo secolo a Poissy, non lontano da Parigi, si celebrava una messa « per preservare il paese dalla collera » delle fate. All’inizio del diciassettesimo secolo, Le Nobletz, « missionario in Bretagna », trovò nell’isola di Sein tre druidesse che diffondevano il culto del sole sotto il nome di Doué-Tad, nel quale si riconoscono nello stesso tempo Dio Padre e l’antico Teutates dei Celti. Esse venivano consultate dagli uomini prima di mettersi in mare. Le Nobletz racconta che riuscì a convertirle e le fece stabilire sulla terraferma, dove conclusero la vita in un convento. Probabilmente non fu un caso unico; molte «buone signore », stanche della vita selvaggia che dovevano condurre e avendo rapporti sempre meno frequenti con le popolazioni cristianizzate, dovettero finire i loro giorni con il soggolo delle suore.

Di queste sacerdotesse celtiche, abbiamo il modello nella banshee, la fata irlandese, maga e messaggera dell’altro mondo che, per viaggiare, si trasformava in un uccello, per lo più in cigno. Non potevano resisterle coloro cui tendeva un ramoscello o una mela dai poteri meravigliosi. Per i Galli, le fate erano le anime delle druidesse condannate a fare penitenza. I contadini bretoni vedevano in loro delle principesse che, avendo rifiutato di convertirsi quando alcuni apostoli arrivarono in Aremorica, furono colpite dalla maledizione divina.

 

Jacques Brosse

In “Mitologia degli alberi” – BUR

Foto: RETE

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