IL MIRTO, per gli antichi era l’immagine stessa della grazia verginale

 

Tutti i popoli rivieraschi del Mediterraneo hanno nutrito un’affettuosa venerazione per il mirto, la cui fragranza, ardente e soave insieme, profuma l’aria circostante.

Piccolo albero di 4-5 metri, di solito forma cespugli rotondi e folti, dalle foglie persistenti di un verde vivo e lucente. Specie tipicamente mediterranea, cresce soprattutto vicino alle coste[…]

All’inizio dell’estate il frutice si copre di una profusione di fiori di un bianco puro, delicati e prò fumatissimi. Per gli antichi era l’immagine stessa della grazia verginale. Già le giovani egiziane intrecciavano corone coi suoi rami, a cui frammischiavano fiori di melograno, rossi simboli della loro futura fecondità, e quest’uso fu ripreso dai greci e dai romani. I persiani consideravano il mirto votato agli dei, pertanto si mettevano una corona di mirto in capo prima di invocarli. Quando chiedevano loro la vittoria o li volevano ringraziare di averla concessa, offrivano loro rami di mirto. Così, quando l’esercito di Serse, apprestandosi a invadere la Grecia, passò dall’Asia in Europa, ne coprì il cammino che doveva percorrere. Allorché giunse la notizia che la spedizione si era impadronita di Atene, gli abitanti di Susa, la capitale, cosparsero il suolo di mirto.

Nel corso dei banchetti, ad Atene o a Roma, i commensali si passavano di mano in mano dei rami di mirto, in segno di allegria e per incitarsi a cantare uno dopo l’altro. Veniva spesso piantato nei giardini romani, dove i topiari (giardinieri-decoratori) lo potavano, come il bosso e il cipresso, per farne veri e propri quadri vegetali.

Secondo Plinio, il mirto era stato associato ai primi eventi della storia romana: «Fu forse il primo albero piantato a Roma nei luoghi pubblici, presagio indubbiamente profetico e memorabile». Dopo il ratto delle sabine, quando romani e sabini decisero di venire alle mani, prima di dare battaglia gli avversari, deposte le armi, «si purificarono con rami di mirto nel luogo dove ora si trovano le statue di Venere cloacina» (Venere purificatrice). Il mirto simboleggiava la vittoria, ma la vittoria ottenuta senza spargimento di sangue. Al momento dell’ovazione o trionfo minore, decretato dal Senato per il felice esito di una guerra non dichiarata (contro schiavi o pirati), il vincitore, vestito di bianco e con una corona di mirto, saliva al Campidoglio dove sacrificava una pecora, da cui la parola ovazione (da ovis, “pecora”), mentre durante il trionfo propriamente detto il generale vittorioso, coronato d’alloro, sacrificava un toro a Giove. Uno dei templi più antichi di Roma era quello di Quirino, Romolo divinizzato dopo la morte, che s’innalzava sulla collina chiamata di conseguenza Quirinale. «Due mirti sacri vissero a lungo proprio davanti al tempio, chiamati uno patrizio, l’altro plebeo. Per molti anni il patrizio fu il più bello, vigoroso e prospero; finché il Senato fu altrettanto florido, fu enorme, e il plebeo malaticcio e stento; quando quest’ultimo acquistò vigore, mentre il patrizio cominciava a ingiallire…, l’autorità dei senatori si indebolì e a poco a poco quel corpo maestoso sfiorì e divenne sterile». Proprio lì accanto, aggiunge Plinio, si trovava un santuario a Venere Mirtea, vestigio di un antico bosco sacro di mirti.

Il mirto era quindi consacrato a Venere, divinità protettrice dell’Urbe, essendo la madre del troiano Enea, il mitico antenato dei romani. Allo stesso modo, in Grecia, era l’albero di Afrodite, ma forse non da sempre. Infatti, secondo una leggenda, la dea avrebbe adottato il mirto solo dopo essere sbarcata a Citera. Sappiamo da Erodoto che il suo tempio in quell’isola a sud del Peloponneso fu fondato dai fenici, che vi possedevano una sede commerciale, ed è dal loro paese che veniva la dea Atargatis o Dirceto, che i greci assimilavano alla loro “Afrodite celeste”. Inizialmente limitato a Citerà e a Cipro, da cui gli appellativi di Citerea e Cipride che la dea porta in Omero, il suo culto si diffuse in tutta la Grecia. Afrodite non fece altro che appropriarsi di un’essenza appartenuta in precedenza a Dioniso, il quale l’avrebbe a sua volta ceduta ad Ade, che gliel’aveva chiesta come compenso per la liberazione di Semele, sua madre, che Dioniso era andato a cercare agli Inferi.

Proprio per questo il mirto poteva essere anche funesto, come testimoniava ai greci la morte di Mirtilo (“del mirto”), figlio di Zeus o di Ermes e auriga di Enomao, che, precipitato in mare da Pelope, mentre s’inabissava tra le onde maledisse l’assassino e la sua discendenza. Nefasto era anche il vecchissimo mirto che cresceva a Trezene, presso il tempio di Afrodite Catascopia (la “protettrice”, ma anche colei “che sorveglia, che spia”), piantato per ordine di Fedra sopra il ginnasio dove Ippolito si esibiva nudo. Di là poteva contemplarlo senza essere vista. Snervata dalla sua passione insoddisfatta, la sposa di Teseo trafiggeva con uno spillone le foglie dell’arbusto. Questo spiega le perforazioni che si possono intravedere se si mette una foglia di mirto in controluce. Si tratta in realtà di minuscole sacche secretorie che danno alla pianta il suo aroma. È a questo mirto di Trezene che secondo Pausania, Fedra s’impiccò dopo la morte di Ippolito. […]

Nella medicina antica il mirto era considerato una panacea. Bacche e foglie erano utilizzate come energico astringente in ogni evenienza: diarrea, febbre, emorragia, ulcera, prolasso, cosa che non stupisce affatto visto che sono ricchissime di tannino. Dai frutti del mirto si traeva olio e anche una specie di vino, il myrtites o myrtidanum, che non solo era di sapore gradevole, ma non faceva nemmeno ubriacare. Fino a poco tempo fa, con i fiori e le foglie si preparava un’acqua distillata assai nota in cosmesi, giudiziosamente battezzata “acqua d’angelo”. Oggi il mirto è ancora molto usato come balsamo e soprattutto disinfettante in un buon numero di preparati farmaceutici, e proprio a questo scopo lo utilizzavano gli antichi.

Emblema della verginità, ma sensuale e conturbante, il mirto ha lungamente figurato, allo stesso titolo dei fiori d’arancio, nelle cerimonie di nozze. […]

 

JACQUES BROSSE

In “Storie e leggende degli alberi” – Edizioni Studio Tesi

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