La casa

 

Lo slogan del tempo della pandemia è stato « Io resto a casa». Questa immagine della «casa» in cui «si resta» o «si torna» per necessità, per responsabilità, per scelta civile e morale, questa casa rideterminata nel suo valore ancestrale a cui abbiamo ancorato l’isolamento dovuto al Covid-19, è certo una di quelle che porteremo per sempre con noi e che sarà costitutiva delle nostre memorie.

Nelle mie prime etnografie, moltissimi anni fa, la casa si configurava come il «centro» di quel «centro del mondo» che era il paese. Luogo di fondazione mitica, proiezione dell’io, centro di unità produttiva e lavorativa, luogo della famiglia, del ritorno dei morti, della nostalgia e della memoria, rifugio. Punto di partenza da cui cominciava il viaggio nel mondo e, quasi sempre, punto della sua fine. Nella mia cultura di origine, «mi ricogghiu» significa ritirarsi a casa, appartarsi dal mondo, “stare” nel proprio luogo al sicuro con se stessi e con i propri familiari. «Ricogliti», detto a qualcuno con irritazione, equivale a dire «vatti a nascondere», «vai nel tuo rifugio e non farti vedere, sparisci». I calabresi non dicono «vado a casa», ma dicono «vado a la casa».

C’era continuità tra la casa e la terra, il paese e le campagne. Le abitazioni insistevano, prevalentemente, sulle zone produttive, in prossimità delle piccole proprietà contadine. Ancora oggi nei paesi, nonostante i grandi cambiamenti e il loro svuotamento, gli abitanti di una ruga, vicini di casa, continuano a essere vicini di proprietà, di terre. Lo spazio abitato, vissuto, frequentato, nella mappa interiore degli uomini era coerente, era fatto di continuità, di senso, non di rotture. Per tutti questo universo aveva un solo e determinante verso.

Le persone che partivano dai paesi negli anni Cinquanta del Novecento, quando io ero bambino, provavano il dolore più lancinante ma confidavano nel futuro del luogo. Era per loro inimmaginabile che quei primi passi verso l’altrove sarebbero diventati nel tempo una sorta di percorso, un passaggio, che avrebbe comportato il rischio della chiusura del paese. Sentivano, di certo, che nulla sarebbe stato come prima, ma pensavano che il paese non si sarebbe svuotato, che non avrebbe mai visto la propria fine, e che sarebbe rimasto là ad attendere il loro ritorno. D’altronde le rughe, le strade, le piazze che con la loro partenza lasciavano, restavano ancora piene di gente e vitali. Quello che vivevano come un evento drammatico, come il fatto realmente pericoloso, era il momento dell’uscita da casa, che spesso restava chiusa. E anche quando partivano con l’idea di tornare per sistemare o ampliare la casa, la soglia diventava una sorta di linea d’ombra, l’abisso che divora.

La cultura tradizionale, plasmata da un immaginario che sapeva il dolore di una lunga storia di catastrofi, di abbandoni, di scacchi, esprimeva in varie forme il timore che la casa potesse scomparire, essere perduta, chiusa. Se non si ha presente questo senso religioso, quasi sacrale, con cui ci si rapportava alla propria abitazione, si fa fatica a capire la grande cura che gli emigrati hanno dispiegato nel tempo per l’allestimento della nuova casa nell’altrove. Si farebbe fatica a capire il desiderio fondamentale di esserne proprietari, la mania della pulizia, l’orgoglio di esibirla, persino il bisogno irrazionale di cambiarla per sottolineare i miglioramenti di status.

Ma la casa lasciata restava edificata nella memoria, restava come desiderio del ritorno, anche quando diventava chiaro che nessun ritorno sarebbe stato più possibile. Ho visto spesso persone che tornavano e che non volevano più entrare nella casa vuota, chiusa, magari con qualche erbaccia alla porta o alle pareti. La soglia, come limen tra passato e presente, segna la cesura tra sogno e realtà, tra noto e ignoto, tra un io che è partito e un io che torna e che però non può più tornare del tutto e per sempre. Questo sentimento invade chi ritorna e percepisce che tutta la vita è diventata altro dopo aver varcato la soglia in uscita.

La casa vuota era la fine di tutto. Una tradizione, che risale al mondo antico, vuole che subito dopo la morte l’anima del defunto parta per un viaggio mitico per attraversare il «ponte di San Giacomo», un ponte che in questa narrazione ha lo spessore di un capello, che non può essere oltrepassato se si è gravati di peccati. Non poter iniziare questo viaggio dal proprio letto, tra gli affetti dei propri cari, tra le preghiere che agevolano il cammino, veniva considerato un esito disordinato del proprio progetto di vita. Il lutto si elabora nella propria casa.

Le case di paese quasi mai sono costruzioni banali, seriali. Ogni casa ha una sua personalità, un carattere distintivo, una somiglianza spiccata con il contesto e con il suo proprietario, tanto più nei centri arroccati e appesi, veri e propri miracoli di equilibrio e di abilità costruttiva, frutto di genialità, di storie ripetute di abbandoni e di ricostruzione. Spesso, nel passato, le abitazioni povere erano insicure; a volte erano solo baracche nelle quali convivevano molte persone e, non di rado, lo facevano con gli animali domestici. Ciononostante, la perdita della propria casa poteva configurarsi non come «la fine di un mondo» ma, più drammaticamente, come «la fine del mondo». Chi lasciava la casa lo faceva solo per un tempo limitato alla sua ristrutturazione, o a volte per costruirne una migliore. Per chi restava la casa era l’ancoraggio della propria presenza; per chi partiva era pegno di memoria, certezza di essere attesi.

E per tutto questo che ho trovato insensati e irrispettosi alcuni inviti retorici a ripopolare i paesi, a riabitare le case vuote di chi è andato via, quasi come se fossero edifici senza memorie, senza storia, prive di un senso proprio. Nelle spopolate aree interne, nella speranza di attrarre residenti, è stata proposta più volte la vendita «a un euro» delle case abbandonate dai proprietari. Si tratta dello slogan di una presunta azione di salvaguardia che, però, è rivolta alla vita degli immobili e non a quella delle persone, che punta ad attivare microcircuiti edilizi, che incoraggia le fughe-singhiozzo dalle città invivibili, ma che in nessun modo si configura come un progetto organico teso alla costruzione di nuovi legami comunitari. Credo sia un’idea devastante perché restituisce l’idea che la casa venduta al prezzo di un euro valga esattamente un euro; che valga un euro la fatica di averla pensata e costruita, l’averla abitata, l’avervi fondato le vite nascenti, l’aver costruito una rete di vicinato, l’averla fatta diventare il posto di qualcuno nel mondo. Sotto un profilo simbolico, è come svendere la memoria comunitaria; sotto un profilo economico è depotenziare i costrutti familiari e sociali incorporati in ogni singola casa, svalutare economicamente le case dei restanti, di quei residenti che hanno continuato a vivere nel paese, a curare e manutenere leloro abitazioni.

Siamo costitutivamente il luogo che percorriamo e che raccontiamo. Scrive Fulvio Librandi: «E come se le tracce emotive, che il corpo conserva come una sapienza implicita, trovassero modo di riaffacciarsi alla coscienza nella forma di un paesaggio che può essere restituito solo con il concorso di tutti i sensi» (Librandi 2018, p. 13).

Dovremmo pensare a una rinnovata dimensione dell’idea di casa, di domus, che sia inclusiva e dialogica. Immagino una casa i cui muri possano continuare a parlare di me, di noi, a “dire” una storia, ma la immagino con le porte sempre aperte. Dalla nostra disponibilità all’accoglienza ormai dipende non solo il futuro, ma anche la partita, altrettanto importante, della salvezza della nostra memoria.

Superati i trent’anni, anch’ io ho dovuto fare i conti con un ritorno possibile o con una porta da chiudere alle spalle, e sapevo di non essermene mai andato del tutto. E la condizione della doppiezza che emigrati e rimasti conoscono bene, abitare il viaggio, abitare nuove esperienze, e contemporaneamente abitare quella vita nel paese che continuiamo a sentire come una sottrazione. In fondo, la mia casa è dovunque, è qui, è memoria, è esilio.

VITO TETI

In LA RESTANZA, Einaudi

 

Foto:  RETE

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