Che l’uomo santo bizantino fosse e rimanesse essenzialmente legato all’originale ideale anacoretico è un dato accertato; ma se lo spiccato individualismo del monachesimo ortodosso non può essere sottovalutato, neppure si deve negare l’influenza profonda, anche in àmbito politico, esercitata dai monaci sulla popolazione dei fedeli. Sarebbe infatti scorretto credere che eremitismo e ascetismo creassero tra il mondo e il santo una frattura insormontabile.
Certo[…], la vita di quegli uomini era antiurbana, in contrasto radicale con l’etica e con il conformismo sociale della loro età; e nondimeno l’anacoresi non implicava necessariamente un’alienazione totale dalla società. L’uomo santo si separava totalmente dalla realtà circostante sino a divenirne straniero, ma tale ascetismo non si esauriva in un’automortificazione personale, anzi, proprio grazie a quei rituali di dissociazione che ne palesavano con chiarezza la determinazione a sottrarsi alla continuità del potere secolare, il monaco accresceva la propria capacità di incidenza sul mondo, presentandosi con il suo radicalismo escatologico quale correttivo all’insipienza di chi non aveva esitato a compromettersi con l’ordine profano.
Fuggendo la popolarità, essi ne acquisivano una grandissima: pregare un monaco con timoroso rispetto, visitare un anacoreta, interrogare un santo stilita significava rivolgersi a figure carismatiche e profetiche riconosciute come tali nella vita quotidiana, «angeli terrestri» ai quali si chiedeva fiduciosamente consiglio e aiuto. Figure la cui memoria si perpetuerà con forza nell’ortodossia russa, soprattutto nella tradizione degli starcy – tra i quali lo Zosimo dostoevskiano dei Fratelli Karamazov è forse l’esempio letterario più noto -, padri spirituali da cui promanava lo Spirito Santo, pronti a rispondere a ogni quesito dei fedeli al cui servizio mettevano la propria esperienza ascetica e mistica. Invero lo straordinario ascendente esercitato sulle coscienze dei credenti da quei monaci solitari, venerati dalla folla dei pellegrini in quanto capaci di guarire con la loro semplice presenza o tramite la propria effigie dipinta le sofferenze dell’anima e del corpo, oltrepassava di gran lunga il credito di cui godeva il clero, spesso troppo compromesso col potere profano. Né tale influenza si limitava alla sfera spirituale. Dall’alto della sua santità, con la sola forza della preghiera e della predicazione apocalittica l’asceta, ancora nel mondo ma non del mondo, dominava tutti i ranghi della società: istruiva, dirigeva e, secondo i casi, osava criticare l’imperatore e l’autocrazia.
Recarsi da un uomo santo significava andare là dove vi era un «potere in azione» (charis energoùsa) sicché, non senza ragione, Ihor Sevcenko (1977, p. 117) suggerisce che il monaco doveva la santità alla funzione sociale svolta – informale forse, ma carismatica – più che alle sue «imprese spirituali». Di fatto egli non solo delimitava gli orizzonti della vita morale e sociale delle comunità in cui agiva, ma si presentava anche come un intercessore privilegiato e personale tra Dio e gli uomini, concorrenziale e in aperto contrasto con la maestà del principe nella cui potenza si era soliti avvertire una speciale rivelazione del «sacro», del «totalmente altro» […] Una rivelazione di derivazione tardoantica il cui significato era stato trasfigurato dal cristianesimo e dal suo messaggio di redenzione come era testimoniato senza ambivalenza dalle acclamazioni rituali che accompagnavano l’elevazione al trono dei sovrani – «Dio ti ha dato, Dio ti preserverà», o ancora, «Dio del cielo preserva il Re della terra» (Costantino Porfirogenito, De cenmoniis, ed. Vogt, 1967, passim) — e, più in genere, da tutto il complesso cerimoniale pubblico, dalle parate militari alla consacrazione del basileus in Santa Sofia, con la straordinaria capacità di suggestione che rendeva manifesta ai sudditi la sfolgorante maestà dell’imperatore.
Ben si comprende dunque quante e quali implicazioni mondane fossero presenti nella figura dell’uomo santo la cui azione era insidiosa nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, disprezzate per il loro conformismo, e spesso diretta contro culti pubblici ritualmente consolidati. Rischiava così di essere incrinata la sacralità dell’istituzione imperiale e dei suoi simboli e al contempo di venire alterata la stabilita gerarchia tra Dio, sovrano e sudditi, a favore dell’ordine sacro di cui si sosteneva la supremazia su quello profano. E questo in un momento in cui all’autocrazia appariva indispensabile riaffermare in modo categorico un potere e un prestigio già gravemente incrinati dalla crisi interna seguita alla morte di Giustiniano II e soprattutto dalle devastanti avanzate islamiche che avevano scompaginato l’assetto territoriale dell’impero sovvertendo equilibri interni, valori civili e consuetudini di vita. Ancor più chiara appare l’interazione tra politica e arte figurativa se si considera la funzione svolta dalle immagini imperiali nella società bizantina che, per eredità diretta della tarda antichità, era da tempo avvezza a recepire i potenti valori simbolico-sacrali propagati da quelle rappresentazioni. Le effigi degli imperatori, destinate a essere viste da tutti, comparivano sulle monete, nelle aule dei tribunali o sulle legature dei codici giuridici con un significato immediato perfettamente comprensibile, specie se si ricorda che le sentenze erano pronunciate soltanto al cospetto dell’imperatore: l’immagine del sovrano sostituiva la sua persona garantendone simbolicamente la presenza.
Tuttavia col progredire del tempo i valori connessi all’arte profana, codificati in un cerimoniale prestabilito e ufficialmente riconosciuto, erano stati sminuiti, e in maniera considerevole, dal successo dell’arte sacra. Nel corso del tempo i ritratti ufficiali del principe cristiano erano stati infatti sostituiti nella sensibilità collettiva da immagini sacre, rivali e antitetiche rispetto alle raffigurazioni imperiali: le icone che, più commoventi e rassicuranti, meglio rispondevano ai bisogni religiosi di una popolazione in cui lo smarrimento suscitato dall’erosione di istituzioni e di modelli classici era acuito da una lunga successione di disastri militari. Antiche certezze erano messe in discussione proprio mentre veniva meno la fiducia negli ordinamenti pubblici a favore della nuova e più confortante presenza del clero e in particolare dei monaci il cui ascendente si accresceva a detrimento dell’autorità statale, aggravando talora in alcune regioni asiatiche quel dissidio tra ortodossi ed eterodossi che di fatto facilitava la propaganda e l’avanzata dei musulmani.
Le numerose Vite dei santi, le raccolte dei Miracoli, la diffusione di immagini acheiropoiéte («non eseguite da mano d’uomo») che si credevano inviate ai-fedeli da Dio quasi a rinnovare il mistero dell’incarnazione, tutto concorda nell’attestare l’importanza assunta dall’iconografia sacra e permette di misurarne concretamente affermazione e utilizzo. A partire dal secolo VI una peculiare forma di sensibilità religiosa, sviluppatasi nella coscienza popolare prima ancora di ogni giustificazione teologica e al di fuori del dogma, aveva conferito alle effigi di Cristo, della Vergine e dei santi la funzione di immagini di culto per eccellenza. Nelle abituali pratiche di pietà non si avvertiva soltanto una certa continuità tra il dipinto e il suo prototipo, ma si arrivava a pensare che la persona in esso rappresentata vi fosse realmente presente. Lo stesso materiale con cui tale raffigurazione era eseguita veniva percepito come compartecipe della santità di chi era effigiato, tanto che talvolta si raschiavano i colori dell’immagine sacra per diluirli in acqua o vino al fine di ottenerne salutari pozioni con cui guarire i malati e soprattutto gli ossessi nei quali lo stato d’infermità e di stravolgimento era nell’immaginazione popolare spesso e dolorosamente assimilato a quello del peccato. Non diversamente un’icona poteva fare da padrino al neonato al momento del battesimo o essere elevata a difesa di città, di eserciti o di singole persone nella convinzione che da essa promanasse un’aura benefica e santificatrice. I miracoli avvenuti erano garanzia per il futuro, certezza che altri ancora il santo ne avrebbe compiuti se pregato dai suoi fedeli con la massima devozione e con fede retta e assoluta. L’icona permetteva alla chiesa di associare in qualche modo alla fede e al culto cristiani una serie di temi folclorici appartenenti a forme molto antiche di vita religiosa, divenendo così un elemento insostituibile della vita privata e pubblica con poteri di intercessione propri e con specifiche virtù miracolose. Capaci di suscitare nel popolo dei fedeli tenera venerazione, riconoscenza, speranza, le immagini potevano così trasformarsi anche, superando il confine che separa il sacro dal magico, in amuleto e in sortilegio.
Al di là dunque dei personali sentimenti religiosi di Leone III – ispirati da indubbia pietà cristiana e da sincera avversione contro l’uso distorto e idolatrico delle immagini sacre – la violenta reazione contro il culto delle icone fu ai suoi primordi determinata soprattutto dalle sottili implicazioni politiche in esso presenti, implicazioni che, dato lo stretto rapporto esistente a Bisanzio tra potere, società e arti figurative, si esplicavano soprattutto sul terreno cruciale della comunicazione tra autocrazia e popolo. Senza dubbio al sovrano non sfuggiva quale prestigio assicurasse a monaci e a uomini santi il culto delle icone sentite dai fedeli come ritratti autentici, capaci di violare il corso del tempo umano riattualizzando l’età prodigiosa in cui Cristo, la Vergine o i primi santi erano vissuti in mezzo agli uomini. E più ancora Leone III era certo consapevole di quanto la straordinaria diffusione di quelle sacre pitture alterasse a tutto danno del potere autocratico la tradizionale gerarchia politico-sacrale delle immagini; di come cioè la solennità di quelle raffigurazioni, non diversamente da quanto già accadeva con lo splendore delle funzioni religiose rispetto alle cerimonie pubbliche, tendesse a emulare o a sostituire le effigi imperiali. Alla volontà degli ambienti monastici di presentare il proprio ideale ascetico come icona vivente della divinità, il basileus, che secondo l’ideologia politica dell’impero romano-cristiano era rappresentante o «mimesi» di Cristo (Christomimetés], opponeva il proprio diritto di essere l’unica immagine della presenza di Cristo tra gli uomini, il solo in grado di garantire che la vita del mondo scorresse in armonia ed equilibrio.
Lungi dunque dall’avere quelle connotazioni eterodosse successivamente attribuitegli dagli avversari, ai suoi inizi l’iconoclasmo era alieno da considerazioni di carattere squisitamente dottrinale e per nulla contrario alla tradizione figurativa in quanto tale. L’intento di Leone III, sovrano vittorioso e acclamato salvatore della capitale nel 717-718 dagli attacchi arabi, fu piuttosto di ribadire la supremazia del potere autocratico nella mediazione tra la sfera trascendente e il mondo terreno. Comprensibile è che in una società quale la bizantina, avvezza a considerare l’ordine terrestre come il riflesso dell’ordine celeste – e pronta dunque a percepire ogni mutamento gerarchico alla stregua di una pericolosa ed empia eversione — il provvedimento imperiale si configurasse come un indispensabile atto del sovrano per riaffermare di fronte ai propri sudditi la centralità dell’istituzione imperiale screditata dalle sconfitte dei suoi predecessori. Leone III, pur mantenendo intatta la propria fede nel governo supremo e soprannaturale di Cristo, tramite la rivalutazione dell’arte profana si faceva promotore della restaurazione dello stato o meglio di un nuovo «patriottismo» – se è lecito usare un termine che risale al secolo XVIII – in grado di opporsi alle tendenze disgregatrici e destabilizzanti dei poteri ecclesiastici locali e al contempo capace di mobilitare contro la minaccia islamica tutte le forze bizantine in uno spirito di rinnovata coesione intorno al potere autocratico. Infatti in questa guerra di segni gli imperatori iconoclasti ricuperarono, oltre a elementi decorativi di ispirazione animale e vegetale tratti dal repertorio tradizionale dell’arte cristiana, temi iconografici dell’arte imperiale, quali scene di caccia o corse di carri, volti a esaltare la potenza autocratica. Ma soprattutto enfatizzarono il simbolismo astratto della croce – segno della preziosità della redenzione – come genuina espressione della pietà cristiana, e al contempo quale deliberata reminiscenza dei regni vittoriosi di Costantino, di Giustiniano o di quello di Eraclio che aveva fatto coniare alcuni milaresia argentei sul cui verso, attorno alla croce, era riportata l’invocazione dei soldati Deus adiuta Romanis così da «sottolineare la funzione militare [di quell’emblema] su tutte quelle monete» (Grabar, 19842, p. 36).
Per i sovrani iconoclasti, il cui primo imperativo consisteva nell’opporre una forte difesa militare alla minaccia araba, nulla doveva sembrare più opportuno che l’adozione del segno costantiniano, più antico ed efficace di qualsiasi icona. Nel momento in cui la sopravvivenza stessa dell’impero sembrava in discussione l’immagine sacra si concentrava così su un simbolo che, associato sin dalle origini dell’impero cristiano all’idea della vittoria, si configurava – secondo la definizione datane da Eusebio di Cesarea (260/265-339/340) – come una sorta di «talismano dinastico» (phylaktérion tés basileìas; Vita Constantini, ed. Winkelmann, 1975, p. 104): un’insegna atta a evocare lo stretto legame intercorrente tra la divinità e l’autorità imperiale e più consona a una società che si auspicava compatta e centralizzata. L’intento riformatore, ispirato all’idea di ripristinare quella pienezza del potere autocratico colpita dalla catastrofe del secolo VII, trovava la sua espressione programmatica più chiara nel preambolo dell‘Ecloga, «scelta» di norme legislative ricavate dal Codex giustinianeo. In esso, senza timore di spezzare l’”narmonico accordo” (symphonia) da tempo stabilitosi tra impero e chiesa, Leone III e il figlio Costantino V (741-775), associato al trono nel 720, ribadivano il ruolo dell’autocrate quale unico e privilegiato mediatore tra Dio e il popolo:
Poiché Dio ci ha affidato l’autorità della basilia, come Gli è piaciuto […] ingiungendoci, secondo Pietro, capo e corifeo degli Apostoli, di «pascere il gregge» dei fedeli, noi siamo convinti che non vi sia per Lui nulla in contraccambio di più alto o più grande del governo che ci è stato da Lui affidato in giudizio e in giustizia, e che per conseguenza, sia nostro dovere «sciogliere il legame» di ogni ingiustizia, porre un freno agli impulsi di coloro che errano, e così pure ricevere dalla Sua mano onnipotente la corona delle vittorie sui nostri nemici, corona assai più preziosa e stimabile del diadema che ci è stato imposto, e conservare il nostro governo in pace e stabile lo stato (trad. it. in Perdisi, 1990, p. 73).
Di M. Gallina
In “Storia del cristianesimo”, a cura di G. Filoramo e D. Menozzi
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