Sono grandi, avventurosi, come fatti di luna nel
mezzo della notte.
Ardono come legno. Distillano un’acqua fresca e
deliziosa, come la linfa dei grandi alberi.
Non sembrano venire dalle rocce terrestri:
li immaginiamo germogliati
dalle caverne più selvagge e profonde.
O saliti forse da un fosso oceanico
dove hanno appreso dalle sirene l’arte dell’abbraccio
fino ad avere braccia trasformate in serpenti.
Se non avessero nomi come i nostri, non li
crederemmo umani. Li penseremmo abitanti di
stelle sconosciute, di pianeti di frumento.
Nell’ombra si confondono, a volte,
con gli dei.
Scivolano e si spaventano come animali,
assomigliando oltremodo agli dei.
Non osano la parola:
usano il gemito e il sussurro.
Le parole più corte della terra
e più parole, senza dubbio.
Quando torno a casa chiederò alla Morte
che non venga per loro.
Sarebbe bello che li lasciasse liberi per sempre
e che uscissero per strada abbracciati,
come profeti di un rito vegetale e poderoso.
Noi gli canteremmo canzoni di allegria
e gli metteremmo collari di foglie fresche.
Grandi collari utili come guanciali
quando si trovassero
senza cuscini in qualche luogo amaro della terra.
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