GARIBALDI: “Non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio».

Garibaldi

 

Il piemontese conte Alessandro Bianco di Saint Jorioz  era capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale; in armi, aveva  partecipato alla distruzione del Regno delle Due I Sicilie e al massacro dei meridionali. Lo aveva fatto (scrisse in II brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863),  convinto di combattere contro «la povertà dei coloni agricoli, la rapacità e la protervia dei nobili, l’ignoranza turpe» e la superstizione, il fanatismo, l’idolatria, la sregolatezza dei costumi, l’immoralità, le corruttele di  impiegati, magistrati e pubblici funzionati, la rapina, il malversare. Insomma: il male. Questo, gli avevano raccontato, era il Sud.

Capì tardi, ammise, che quel popolo era «nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto». Perché, con l’invasione piemontese, «in pochi anni le proprietà si concentrarono a pieno nelle mani dei ricchi, degli speculatori, degli usurai e dei manipolatori… Tu vedi uomini di merito languire. Spopolati gli studi di tanta gioventù». E i beni delle famiglie erano depredati con tasse di successione così abnormi «che con tre successioni nella famiglia stessa, che possono verificarsi anche in un anno, dalla agiatezza si balza nella mendicità qualunque famiglia».

E questo era dopo. Dopo la strage. Che fu tale da impressionare persino Nino Bixio, che pure «da solo eseguì nel Sud ben settecento fucilazioni», scrive Antonio Ciano. E apparve come colomba fra rapaci, in Parlamento a Torino, nel tentativo, fallito, di frenare il massacro in corso:

«C’è l’Italia là, o signori, e se vorrete un’Italia si compia, bisogna farla con giustizia, e non con l’effusione di sangue».

Lo stesso Garibaldi, otto anni dopo la sua impresa, scriveva che

«gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio».

C’è una quantità sconfinata di vicende che chiedono di essere raccontate, per dire il dolore e l’ingiustizia che le produsse. Ma io non ho che emozioni accumulate in anni e la consapevolezza della mia insufficienza, perché «la sofferenza umana non può essere riassunta» è stato detto.

Quanto ci vuole a uccidere un nostro simile? Per Giuseppe Santopietro e il figlio neonato bastò poco: a lui un colpo di fucile, al piccolo una sventrata di baionetta. Alle trenta donne che si erano raccolte attorno alla croce, nella piazza del mercato, provvide una carica di prodi bersaglieri, che espugnarono vittoriosi la postazione. Le coroncine del rosario si rivelarono inadatte, contro le lame. Quelle che cercarono rifugio in chiesa, aggrappate all’altare, vennero spogliate e abusate lì; a una, prima di finirla, mozzarono le mani: per difendersi, aveva osato graffiare la faccia a un bersagliere. […]

Maria Ciaburri dicono fosse a letto, col marito Giuseppe. Le saltarono addosso, dinanzi a lui. Poi li uccisero: prima l’uomo; lei dopo, quando se ne stancarono.

Quel paese, Pontelandolfo, faceva cinquemila abitanti. Ma i bersaglieri avevano buona tecnica (erano al Sud «a fare scuola d’Africa», esperienza precoloniale): rastrellavano nelle case e spingevano i prigionieri alla baionetta, come una mandria, giù per le strade, sino a uno sbocco, dove attendevano i loro colleghi, che sparavano nel mucchio. Il paese era destinato a scomparire. Così, in fondo per evitare sprechi, i piumati fratelli, casa per casa, razziavano soldi («Piastre, piastre!» urlavano, riferì uno di loro), gioielli, valori, persino provviste (vino, salumi, formaggi, pane). Un garibaldino cercò di porre in salvo alcuni compaesani: «Vacillante, insanguinata, una fanciulla si trascinava da lui, fucilata nella spalla, perché aveva voluto salvare l’onore, e quando si vedeva sicura, cadeva per terra e vi rimaneva per sempre».

Raccolse la testimonianza un deputato milanese, Giuseppe Ferrari, che volle andare a vedere di persona cos’era successo. Ne rimase sconvolto per sempre («Qui due vecchie periscono nell’incendio; là alcuni sono fucilati, giustamente, se volete, ma sono fucilati; gli orecchini sono strappati dalle donne…»). […]

Carlo Margolfo, della provincia di Sondrio, scrisse un diario, ritrovato centoquattordici anni dopo: «Entrammo nel paese; subito abbiamo cominciato a fucilare preti, e uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, e infine abbiamo dato l’incendio al paese». Con la gente dentro le case. Lamenti e preghiere in una di esse, in fiamme, indussero alcuni ufficiali a entrarvi: c’erano cinque donne in ginocchio, dinanzi a un crocifìsso, sul tavolo.

Temendo altre sevizie, si ritrassero in un angolo, il pavimento cedette, finirono nel rogo. Secondo gli ordini, donne, bimbi e infermi avrebbero dovuto essere risparmiati, riferisce Margolfo. Ma si sa come vanno queste cose: una volta che sei lì… «Quale desolazione,» a fine mattanza, si legge nel diario «non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli, che la sorte era di morire abbrustoliti, e. chi sotto le rovine delle case. Noi, invece durante l’incendio avevamo di tutto; pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava».

 

Da Terroni di Pino Aprile, Piemme

 

Foto RETE

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