PARMARIJA – Il testamento del vecchio padre

 

C’era una volta un padre, che aveva tre figli maritati; qualche soldino ce l’aveva, e per campare tranquillo, pensò bene di fare testamento, lasciando tutto quanto ai figli, senza disparità, a patto che loro gli dessero abbastanza da campare.

Per i primi giorni, i figli e le nuore lo trattarono bene, perché i denari erano ancora freschi; ma passato un poco di tempo, cominciarono a stufarsi e a trattarlo male e a fargli patire la fame. Il povero vecchio piangeva e non sapeva con chi lamentarsi, perché ogni volta che andava dai figli, li trovava rabbiosi come cagne coi cuccioli. E quando non c’era nessuno, si lamentava da solo, dicendo: “Un padre basta per cento figli, e cento figli non bastano per un padre!…”

Stanco di questa vita, un giorno pensò di andare da un compare a farsi prestare cinquanta onze, da restituire dopo quattro, cinque giorni. Avuti quei soldi, se ne andò dritto filato nella sua stanza, si chiuse dentro e si mise a contare quei pezzi da dodici tarì, facendo un rumore che era un piacere sentirlo.

I figli e le nuore, sentendo quel rumore, corsero a origliare da dietro la porta, e dicevano sottovoce: «Caspita, quanti denari che ha!…». Intanto il padre prendeva quei denari, li metteva nel sacco fingendo di conservarli e poi lo riprendeva, fingendo che fosse un altro sacco, che rovesciava e contava. Arrivato a un certo punto, chiuse la cassa e uscì.

L’indomani fece la stessa storia. E il giorno dopo, di nuovo. Insomma per quattro giorni non fece altro che contare, ammucchiare e conservare: tanto che i figli e le nuore erano sbalorditi. Il quarto giorno, il vecchio andò a riportare le cinquanta onze al compare.

Dopo di che, le affettuosità dei figli e delle nuore per questo padre non si potevano raccontare: Papà di qua, papà di là… Chi lo vestiva, chi lo pettinava, chi gli faceva da mangiare, chi gli apparecchiava la tavola; e lui era tutto contento. La cassa intanto la teneva chiusa, e tutti sapevano che dentro c’erano bei pezzi da dodici tarì, e avevano la fregola di soffiarglieli. Ma il padre non usciva più di casa. Un giorno, vedendo che tutti  bramavano quella cassa, li chiamò tutti quanti e disse:

«Figli miei, io ho altro che voi: quando muoio, quello che c’è in questa cassa ve lo dividete in parti uguali senza litigare. E che Dio vi benedica!…».

Dopo di che, i figli e le nuore s’infervorarono ancora di più, con carezze e attenzioni; e il vecchio si diceva:

“Sì, sì, che minchioni! Vedrete, quando muoio…”.

Per farla breve, questo vecchio cade malato e muore. E manco s’era raffreddato il cadavere, che i figli si gettano sulla cassa come galli sul mangime, e la scassinano. Subito la aprono e trovano una tovaglia; allora la levano e ne trovano un’altra; poi levano pure quella e ne trovano un’altra ancora, frementi per l’eccitazione. Ma dopo la terza tovaglia, che trovano? Qualche sasso, una mazza e una scritta che diceva:

Cu’ pi figghji e pi nuri s’ammazza

Cci sia datu ‘n testa cu sta mazza!

Raccolta da G. Pitrè

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