
Nel febbraio del 1880, il tribunale di Castrovillari processò un pericoloso criminale in stato di detenzione, accusato, nientepopodimenoché di «furto semplice di due copie del Calvelli, trattato dell’aritmetica, valevoli otto lire alla tipografia»: l’imputato, Francesco Bonadies, aveva undici anni, faceva il contadino ed era analfabeta.
Dopo ampio e approfondito esame dibattimentale, i giudici, provvidenzialmente folgorati dalla verità, conclusero che il ragazzo aveva «operato senza discernimento e per impulso della fame» e «non essere luogo a punizione per difetto di discernimento» – difetto suo, cioè del ragazzo stesso, non già di quanti lo avevano arrestato, rinviato e sottoposto a giudizio, tenuto in galera fino al processo ! -.
Di considerazioni amare, e, purtroppo, così stantie da saper di lamo, se ne potrebbero fare una sporta, soprattutto in merito a una giustizia che si trastullava impietosamente con un quatraro a cui puzzava ancora la bocca di latte e trascurava i malviventi con la scorza, ma qualcos’altro intriga della vicenda, qualcosa di impalpabile, eppure di sostanziale, che rimase seminascosto fra le aride e pedanti formule processuali: fors’anche prendendo la scorciatoia più ovvia e meno impegnativa, i giudici individuarono nell’impulso della fame la molla del furto, e, però, pare per lo meno incongruo che un contadinello d’appena undici anni volesse trarre indebito sgrano da due testi d’aritmetica quando certamente aveva ben altro da sgraffignare per riempirsi tosto e facile la pancia.
E, allora?
Non fu, piuttosto, che quei libri, proprio perché tali e perché pieni di segni e formule e schemi per lui, analfabeta, indecifrabili, assunsero ai suoi occhi un che di magico ed esercitarono un fascino tentatore a cui non seppe resistere?
Da GUIDA ALLA CALABRIA MISTERIOSA, di Giulio Palange – Rubbettino
FOTO: Rete
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Era fame di sapere e, in particolare, di conoscere l’alfabeto con cui è scritto il libro della natura.
‘O GULIO CHE SFRECULEA
Che guaio ‘a calura senz’aria de’ ssere:
è scura pe’ l’omme che nun tene niente,
quanno ‘o gulio le ven’ pe’ lo sfreculià.
Chissà, passa n’anima amica e sente:
vien’ co’ mmè a magnà, cantà e vevere.
Ma è longa ‘st’attesa, che fa sulo pallià.
Fa cap’ a ‘no supplizio che lo fa lacremà,
e co’ chelle ssere senz’aria, pe’ lo cresemà.
Mo credite che sulo o stòmmaco teno
o gulio, quanno tene famme?
Pure a matematica o teno,
nun se capisce comme.
Ma è a cape de ‘nu guagliòne
che addà fà sempe i cunte
pe accattà almeno ‘o ppane
pe magnà, e allora
songe i nummeri che alluccano
dinto a capa, e chillu piccirille
nun’è ghiuto a scola
pe mparà a scrivere e cuntà.
Forse chillu quaderno di aritmetica,
che isso arrubbaje e poi
fernette in carcere, puteva
farlo addiventà ‘nu grande matematico,
o ‘nu scienziato.
Nun po’ essere?
M’arricorde ‘a storia di Srinivasa Ramanujan,
il più grande matematico di tutti i tempi.
Era un indiano nato povero e imparò la matematica da autodidatta. Fu un bambino prodigio che in breve sopravanzò tutti i suoi coetanei. Ma ci volle del tempo perché fossero note le sue cognizioni straordinarie di matematica. Morì di tubercolosi all’età di 33 anni in India.
Proprio comme ‘a ‘nu povero Cristo!
Chissà a quale diavolo aveva arrubbato
‘o quaderno de’ nummeri!
Forse era un cape lloro!
Gaetano Barbella
un certo ladro di quaderni della matematica.