La storia di Matilde di Canossa, che mise ai suoi piedi papi e imperatori.

Matilde di Canossa va incontro al vescovo di Modena, miniatura dalla Relatio de innovatione ecclesia sancti geminiani, inizio del XII secolo

Cronaca fantastorica di un evento impossibile dei nostri giorni: in un Paese di media grandezza del Terzo Mondo, maschilista quanto basta, pieno di armi e di morti di fame (come il Ciad, l’Etiopia o la Colombia) vanno al potere per puro caso due donne, madre e figlia. Poniamo che le signore si montino la testa, convochino tutti i cardinali del mondo e decidano chi deve fare il papa; poi, la figlia dichiara guerra a una superpotenza che mette il becco nella sua zona (diciamo gli Stati Uniti) e pretende che il leader straniero vada in ginocchio a casa sua. Il bello è che ci riesce. Circa mille anni fa qualcosa di simile accadde davvero. Al posto del Ciad c’era il Nord Italia e in quello degli Usa c’era il Sacro romano impero. Il potente si chiamava Enrico IV, la donna che lo mise in ginocchio Mathilda von Tuszien, più nota come Matilde di Canossa. Lui, malgrado il nome latinizzato, era tedesco, e lei italianissima: nata a Mantova, vissuta nell’Appennino, incoronata a Quattro Castella (Reggio Emilia).

Matilde visse dal 1046 al 1115, ai tempi della lotta per le investiture e della prima crociata. Regnò su Lombardia, Emilia, Toscana, Umbria e paraggi col titolo di gran contessa e poi con quello di regina d’Italia. Fu la prima donna della Penisola che si impose in politica non come “moglie di”, ma in virtù del suo prorompente carisma, che Torquato Tasso, nel canto XVII della Gerusalemme liberata, 500 anni dopo celebrò in due versi: “Può la saggia e valorosa donna / sovra corone e scettri alzar la gonna”. Era andata al potere senza cercarlo. Suo padre, Bonifacio, feudatario potente e poco amato, era stato ucciso nel 1052 con una freccia in gola, mentre cacciava nei boschi lungo il Po mantovano. E le terre di famiglia, munitissime di castelli, erano finite in mano alla sua vedova, Beatrice, perché l’unico figlio maschio, Federico, era minorenne. Ma pochi mesi dopo anche Federico morì (forse avvelenato); stessa sorte per una sorella. Uniche eredi restarono così mamma Beatrice e la bambina Matilde.

Chi aveva teso l’agguato a Bonifacio? «Si diceva che lo avesse voluto l’imperatore (allora Enrico III, ndr) geloso del suo ricchissimo vassallo e timoroso della sua potenza; altri parlavano di una congiura di nobili», ha scritto Vito Fumagalli, tra i maggiori biografi di Matilde. Ma un altro studioso, Paolo Golinelli, storico dell’Università di Verona, obietta: «Bonifacio era stato più volte ribelle all’impero, poi però era tornato a esserne uno dei più fedeli sostenitori. Perché Enrico avrebbe dovuto farlo assassinare?». Certo è che l’imperatore, anche se non fu il mandante del delitto, tentò di esserne il beneficiario e impose alla vedova e all’orfana una “protezione” stretta. Così stretta che diventò un duplice sequestro di persona quando Beatrice si macchiò di un imperdonabile gesto di autonomia: si risposò e, da mamma premurosa, avviò Matilde sulla stessa strada. Per una vedova dell’epoca era un classico modo per coprirsi le spalle. Ma Beatrice aveva trovato marito senza il permesso del suo “patrono”. Pena per lo sgarro: arresto e deportazione.

Ai tempi, papato e impero erano ai ferri corti e l’Appennino emiliano era uno Stato-cuscinetto fra Roma e la Germania che non poteva essere lasciato in mani femminili, per definizione inaffidabili. Di più: nel 1037 il papà di Enrico, Corrado II il Salico, aveva varato le norme (dette di “diritto salico” e tuttora adottate da molte dinastie) che escludevano il sesso debole dall’eredità di scettri e corone. Beffa del destino: nel 1056, quando Enrico III morì, suo figlio Enrico IV aveva 6 anni, perciò anche l’impero finì nelle mani dell’imperatrice-vedova Agnese. Quanto a mamma Beatrice, finalmente libera da tutele non richieste, tornò a reggere il suo maxi feudo. Mai l’Europa era stata così tinta di rosa. Ma fin qui era solo facciata: Beatrice aveva pur sempre un marito-paravento (Goffredo III il Barbuto, duca dell’Alta Lotaringia, in Germania). E Agnese fu presto messa in congedo (1062) da una banda di vescovi tedeschi, grintosi e complottardi.

Matilde con Enrico IV e l’abate di Cluny

.

Enrico IV nel 1077 implora l’abate di Cluny e Matilde di intercedere per lui presso il papa Gregorio VII, che lo aveva scomunicato.

La vera “rivoluzione rosa” arrivò solo con Matilde e solo quando il suo matrimonio, voluto dalla madre, fallì. Fu allora che l’ultima erede dei Canossa decise: lei, donna a tutto tondo (i cronisti la descrivono bella e bionda), avrebbe governato da sola, alla faccia dell’impero, del diritto salico e del sesso forte. Per anni esercitò il potere solo come vice della madre, ma nel 1076, morta Beatrice, si trovò a guidare il più grande Stato a sud delle Alpi: ad appena 30 anni e senza mariti-stampella. La solitudine di Matilde è stata ampiamente enfatizzata, da contemporanei e posteri. Un cronista coevo, Giovanni da Mantova, coniò per la gran contessa un titolo adatto più a una monaca di clausura che a una sovrana: “sposa di Dio”. E Dante, nel suo Purgatorio, la descrisse come “una donna soletta che si gìa / e cantando e scegliendo fior da fiore / ond’era pinta tutta la sua via”. Commento: quel quadretto da “vispa Teresa” non rende giustizia alla gran contessa, se non altro perché la vita di Matilde fu più ricca di spine che di fiori.

La prima spina arrivò subito. Proprio nel 1076 la guerra fredda papato-impero diventò calda. Flashback: un anno prima papa Gregorio VII aveva rivendicato alla Chiesa l’esclusiva della nomina dei vescovi. “Davanti a tutti proibì all’imperatore di avere da allora in poi alcun diritto nell’assegnare i vescovadi”, si legge nelle Gesta archiepiscoporum mediolanensium di Arnolfo, storico dell’epoca. Ma Enrico IV, che era diventato maggiorenne e aveva preso il potere, nominò tre vescovi, fra cui quello di Milano. Ne nacque un pandemonio. Il papa richiamò all’ordine l’imperatore (dicembre 1075) e subito (gennaio 1076) Enrico reagì riunendo a Worms, sul Reno, 25 vescovi tedeschi più quello di Verona, che destituirono il papa con parole roventi: “Poiché nessuno di noi, come tu dichiaravi, per te finora è mai stato vescovo, tu pure d’ora in poi per nessuno di noi sarai pontefice”. Il papa, in risposta, scomunicò Enrico e sciolse dal giuramento di fedeltà verso di lui “i cristiani che l’hanno fatto o lo faranno”.

Enrico IV a Canossa, dipinto di Eduard Schwoiser, 1862

In gioco non c’era più solo la nomina dei vescovi: il papa, ricambiando l’invasione di campo dell’impero nella sfera religiosa, si poneva come autorità assoluta e universale, in grado di decidere le sorti di tutte le istituzioni civili. “Mio è il potere dato da Dio di legare e sciogliere in cielo e in terra”, scriveva Gregorio nella scomunica di Enrico. «Era un atto inaudito, un fatto mai accaduto: per questo le reazioni furono notevoli e tra i sostenitori di Enrico IV cominciarono le defezioni», commenta Golinelli. Ancor più inaudito fu però quel che accadde dopo. Mentre l’Europa piombava in una cupa crisi istituzionale, fra i litiganti si intromisero come mediatrici due donne: Adelaide di Susa, suocera del sovrano, e Matilde, che di Enrico era cugina e di Gregorio amica, o forse amante. Si arrivò così alla celebre “umiliazione di Canossa”: nel gennaio 1077 l’imperatore salì in Val d’Enza al castello della “sposa di Dio” dove lo attendeva il papa, e in cambio di un plateale atto di contrizione si fece cancellare la scomunica.

L’episodio, mediaticamente suggestivo, ispirò per secoli cronisti, pittori, drammaturghi (fino a Pirandello nel Novecento). A dare il la fu il papa in persona: in una sua compiaciuta lettera si legge che Enrico “lasciando alle spalle le insegne reali, con aspetto miserabile, scalzo e vestito di poveri abiti, si trattenne con molte lacrime a implorare l’aiuto e la consolazione della misericordia apostolica”. Altre fonti aggiungono che l’imperatore restò tre giorni in “sala d’attesa”, fuori dalle mura sotto le neve, vestito di umile lana e con la cenere sul capo. Tutto vero? Non proprio: falso era quanto meno il pentimento di Enrico. L’umiliazione del 1077, infatti, non segnò la fine della lotta per le investiture, ma solo l’inizio. Nel 1080 l’imperatore si beccò un’altra scomunica; però stavolta invece di umiliarsi nominò un antipapa, Clemente III, e nel 1084 lo insediò a Roma con le armi. Fingendosi penitente, il furbo imperatore aveva preso tempo, chetato i dissensi e preparato la rivincita. Oggi ciò fa dire paradossalmente a vari storici, fra cui Golinelli, che «Canossa fu la più grande vittoria di Enrico IV».

Matilde, Deriva dal nome germanico Mahthildis: è composto dai termini maht (o macht, mahti, “forza”, “potenza”) e hild (o hildi, “battaglia”), e può quindi essere interpretato come “forza in battaglia”, “potente in battaglia” o “forte guerriera”.

Ma a uscire vincente dall’umiliazione di Canossa fu soprattutto Matilde: il fatto che un imperatore venisse a inginocchiarsi a casa sua la legittimò come terza potente d’Europa. Il diritto salico era stato dimenticato. E il prestigio che derivò alla gran contessa ebbe un peso non da poco quando, dal 1080 in poi, lo scontro fra papato e impero diventò guerra aperta e ci fu bisogno di alleati. Allora Matilde non fu più una diplomatica mediatrice, ma una guerriera aggressiva e schieratissima: dalla parte del papa. Ufficialmente perché Matilde era molto religiosa. Il suo confessore, Donizone, un monaco che divenne il suo biografo ufficiale, la definì “una luminosa fiaccola, ardente in un cuore pio”. E Bonizone da Sutri, vescovo di Piacenza, rincarò la dose giudicandola “un’eccelsa contessa, vera figlia di san Pietro”. Lei stessa accreditò questa immagine da devota con un’altra definizione, che adottò come firma abituale: “Matilda, Dei gratia si quid est”. Tradotto: “Matilde, che se è qualcosa lo è per grazia di Dio”.

Che fosse pia Matilde lo dimostrò in vari modi. Appoggiò il movimento dei Patarini, che voleva far tornare la Chiesa al rigore delle origini. Aprì i castelli ai sudditi, affamati da ricorrenti carestie. Infine coprì di doni e privilegi il suo monastero prediletto, l’Abbazia di Polirone a San Benedetto Po (Mantova), e permise ai frati di far scorrazzare i loro maiali bradi nei suoi boschi. Ma se Matilde tifò per il papato, fu anche per un motivo che con la religione c’entrava poco: molti pontefici dell’XI secolo furono “affare” dei Canossa. Uno, Stefano X (papa nel 1057-58), era addirittura uno zio acquisito della gran contessa. Un altro, Alessandro II (1061-73), aveva avuto la tiara solo perché il tandem Beatrice-Matilde aveva indotto i cardinali, riuniti casualmente a Mantova, a dichiarare legittimo lui invece di Onorio II, un papa-bis nominato dall’imperatore. Quanto a Gregorio VII fu l’alter ego di Matilde.

Sepolcro di Matilde di Canossa in San Pietro in Vaticano, opera di Gian Lorenzo Bernini

Per difendere questo papato fatto in casa, più volte Matilde guidò di persona le sue truppe collezionando successi militari. Nel 1082 Enrico prese d’assalto Canossa, ma fu respinto. Poi i canossiani nel 1084 a Sorbara (Modena) assalirono di notte un accampamento dove alcuni prelati filo-imperiali dormivano ebbri.

La lotta per le investiture continuò oltre la morte di Matilde: ufficialmente fino al Concordato di Worms (ratificato nel 1123) che sancì la divisione dei poteri. Il papato vinse 2-1, garantendosi la nomina dei vescovi e il potere temporale, ma non l’autorità universale pretesa da Gregorio VII . Già prima di quell’accordo, però, scomparsi Enrico IV (1106) e il papa suo rivale (1085) la rissa era andata spegnendosi. Tanto che nel 1111 il nuovo imperatore Enrico V era salito in Appennino non per attaccare Matilde, ma per incoronarla regina d’Italia. Immortale.

Il nuovo titolo non portò fortuna all’ex guerriera, che si ammalò di gotta e negli ultimi anni fu costretta a letto. Morì in un giorno di luglio del 1115. Sepolta prima nella “sua” Abbazia di Polirone, trovò poi posto in San Pietro, a Roma, privilegio raro per una donna. Intanto, dato ancor più singolare per un’italiana, aveva anche lasciato traccia nella lingua tedesca, dove la frase “nach Canossa gehen” ha tuttora lo stesso significato del nostro “andare a Canossa” (piegarsi a un’umiliante sottomissione). Con buona pace di Enrico IV.

FONTE: https://www.focus.it/cultura/storia/podcast-medioevo-matilde-canossa?fbclid=IwAR3DwDnvb-Skw6Gbd0eYcZ4iVI4E0bpAc4aKXrDRMiCn92yBwBz0d163ckg

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close