I Celti, aprile e il salice

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Nel calendario arboreo dei Celti il mese che andava dal 15 aprile al 12 maggio era dedicato al salice, consacrato a Persefone ed Ecate: entrambe dee lunari e regine degli inferi. L’albero aveva dato il nome al monte Elicona, da heliké che in greco significava salice: là dimoravano le nove muse, originariamente sacerdotesse orgiastiche della dea Luna. Il suo legame con Persefone-Luna è testimoniato anche dal famoso dipinto di Polignòto a Delfi, descritto da Pausania, dove Orfeo riceveva il dono dell’eloquenza toccando i salici di un boschetto sacro alla dea.

A Ea, nella Colchide, Giasone, partito alla conquista del vello d’oro, dovette attraversare il cimitero della maga Circe, altra dea lunare, che era piantato a salici sulla cui cima venivano esposti cadaveri di uomini avvolti in pelli di vacca non conciate.

Quando Ulisse volle scendere nel Tartaro a consultare Tiresia, la maga Circe gli raccomandò di recarsi in Occidente per cercare il boschetto di Persefone, riconoscibile dai pioppi neri e dai vecchi salici: là si apriva la porta degli inferi.

Questo legame con la Luna lo ha trasformato nell’albero degli incantesimi e, nel Medioevo, in quello delle streghe. «Nell’Europa settentrionale» osserva Robert Graves «il suo legame con le streghe è così forte che le parole witch, strega, e wicked, malvagio, derivano dallo stesso termine che anticamente indicava il salice e da cui deriva anche wicker, vimine.» Le streghe dell’isola di Sein s’imbarcavano per i loro viaggi notturni in una cesta di vimini che le portava in mare aperto dove praticavano i loro malefici.

In Lituania si venerava la dea Blinda che in quella lingua significa salice. Un mito narrava che possedeva una tale fecondità da partorire persino dai piedi, dalle mani o dalla testa. La dea Terra, invidiosa, decise di eliminarla. Un giorno, mentre Blinda camminava per un prato palustre, i suoi piedi affondarono nel fango che li imprigionò; e la dea fui trasformata in un salice.

Nel 1805, nel villaggio di Kalnekai, sulla riva destra del Niemen, si vedevano ancora delle contadine che pregavano «per la fortuna e la moltiplicazione dei bambini» davanti a un salice adorno di corone di fiori. Il clero cattolico, incapace di far cessare quel rito pagano, dovette rassegnarsi a porre un crocifisso sull’albero.

Il salice più popolare di tutti è quello piangente. I rami che ricadono fino a terra con le foglie pendule evocano non solo le lacrime ma il contegno che si teneva una volta di fronte alle esequie. Sicché  è diventato il simbolo della malinconia, del ricordo nostalgico. Si favoleggiava che avesse accolto il pianto degli Ebrei in cattività: per questo motivo Linneo lo classificò come Salyx babilonica. In realtà  il salice piangente fu portato in Europa dalla Cina soltanto nel 1692.

I Romani lo chiamavano salix, ma anticamente era anche detto vimen, vimine. Vimen ha ispirato anche il nome di uno dei colli di Roma, il Viminale, così detto perché una volta era coperto di salici. D’altronde quello che noi chiamiamo comunemente vimine è un rametto flessibile di alcune specie di salici – la Salix alba, la trianda e la purpurea – che, decorticato dopo una lunga macerazione, viene utilizzato per la fabbricazione di cesti, di panieri e di ogni tipo di legacci.

II salice aveva grande importanza nel culto di Jahvè a Gerusalemme, tant’è vero che il giorno solenne della festa delle Capanne (o dei Tabernacoli), una cerimonia che aveva l’acqua e il fuoco come protagonisti, era anche chiamato «giorno dei salici». La tradizione tannaitica, che risaliva al periodo precedente alla distruzione del Tempio, prescriveva che per il tirso, composto da foglie di palma, melo cotogno e salice, si usasse il salice a rami rossi con foglie lanceolate, il cosiddetto salice rosso, o, in sua mancanza, il salicone.

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Da “Lunario”, di Alfredo Cattabiani – Mondadori.

Foto: Rete

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