
Grazie alla penetrazione del movimento socialista nelle città e nelle campagne, nuove dimensioni organizzative, e anche più larghe prospettive ideali, si aprirono all’esperienza del mondo popolare meridionale. Già alla fine del secolo tale tendenza diede vita ad alcuni eventi di rilevante significato.
In Sicilia – dove, com’è noto, particolarmente aspri erano i conflitti sociali – intorno al 1892 si incominciarono a formare delle leghe, dette «fasci», che avevano per fine prevalente ma non esclusivo l’organizzazione sindacale dei contadini. Si trattava, dunque delle prime forme moderne di organizzazione dei lavoratori, nuclei di vita politica associata, nelle quali costruire modi più elevati di socialità e di solidarietà e insieme esprimere e rivendicare diritti e bisogni collettivi. Nei confronti di tale nascente movimento sindacale il sospetto e l’ostilità del governo divennero allora crescenti.
Il 20 dicembre del 1893 una occupazione di terre demaniali fu repressa dalla polizia, che sparò sui contadini. La risposta popolare fu immediata ed anche sproporzionatamente violenta – com’era naturale in una formazione sindacale ancora immatura e agli esordi – dando vita, soprattutto in provincia di Palermo e di Trapani, ad assalti ai municipi, ai caselli daziari, ad occupazioni di terre, a scontri fisici con i proprietari.
L’organizzazione ricevette allora, fra scontri e locali repressioni, un grande impulso: alla fine del 1893 esistevano nell’isola ben 163 fasci completamente organizzati e 35 in via di formazione, che associavano complessivamente ben trecentomila membri.
Ma la durata di quella straordinaria esperienza fu breve. L’allora presidente del Consiglio, Francesco Crispi, inviò nell’isola un commissario governativo con poteri straordinari e dotato di forza armata. Il 3 gennaio 1894 questi dichiarò la Sicilia in stato d’assedio, fece occupare tutti i centri dove più attiva era stata la presenza sindacale, sciolse i fasci, costrinse alla chiusura anche le più innocue società di mutuo soccorso. I capi dei fasci, fra cui i futuri deputati socialisti Giuffrida e Petricca, furono imprigionati e condannati con severità, mentre vennero sequestrati giornali, abolita la libertà di stampa, infranto il segreto postale e abolito il diritto di difesa.
Lo stato italiano fece allora, contro una singola regione del Mezzogiorno, una prova di repressione generale e indiscriminata carica di significati inquietanti. Una risposta così estrema, infatti, rivelava il diffuso stato di sfiducia del potere pubblico nei confronti delle masse popolari meridionali: sfiducia che evidentemente nasceva dalle ristrette basi di consenso che lo stato stesso era riuscito a radicare nella società isolana.
Come sappiamo, il potere centrale aveva rapporti soprattutto con i grandi gruppi proprietari e si affidava comunque a questi per mediare le relazioni coi ceti popolari. Ma la repressione infliggeva un’ulteriore profonda ferita al rapporto fra potere pubblico e popolazioni, le quali, evidentemente, impedite di sperimentare una forma moderna di attività sindacale e politica, di educarsi a una visione più larga dei rapporti collettivi, erano risospinte a pensare che oltre il ristretto cerchio della famiglia e della parentela la restante società era un mondo infido e pieno di insidie, e lo stato un nemico armato.
PIERO BEVILACQUA
Da “BREVE STORIA DELL’ITALIA MERIDIONALE” – Donzelli
Foto: Rete