Quale territorio comprendeva il Mercurion?

San Nicola di Donnoso – Orsomarso

La designazione geografica-amministrativa di “valle di Laino” corrisponde a quella di “valle di Mercurio” che appare in alcuni documenti della prima età normanna, tra cui uno del 1065 di Roberto Guiscardo. In quanto ambedue si riferiscono al territorio bagnato dal Mercure-Lao che così veniva a denominarsi una volta dal castello di Laino ed un’altra da quello di Mercurio che rispettivamente lo vigilavano nella parte media ed inferiore. La denominazione, poi di “valle di Mercurio” continuava le altre di “Mercurion” o di “regione di Mercurio” o di “eparchia di Mercurio” date alla illustre cittadella del monachesimo calabro-bizantino che nel secolo X fioriva nella zona. La quale era limitrofa ed in contatto, più o meno intenso e continuo, con gli altri centri ascetici di monte Mula a sudovest, di Aieta, a nord-ovest, di Lagonegro a nord e di Latiniano a nord-est. Da non molto è stata espressa l’idea che il termine “eparchia” applicato al Mercurion non sia stato usato in modo generico, ma significhi che questa regione costituisse una entità militare indipendente, come il governo bizantino usava instituirne nei punti strategicamente importanti, alla quale, inoltre, si assegna una estensione assai ampia. Qualunque, però, possa essere stata questa, l’effettiva area monastica mercuriense appare nel secolo X limitata alla media e bassa valle del Mercure-Lao, ed anzi direi che essa fosse compresa in un triangolo. Isolato, perché a ponente e non toccato da quella arteria di grande comunicazione che fu anche nel medioevo la romana via Popilia, e povero di abitanti anche per la scarsità di terreni coltivabili, ma ricco di memorie bizantine. Triangolo che ha il suo vertice superiore a Laino e gli altri non lontano dalla foce Mercure-Lao, ad Orsomarso ed a Scalea rispettivamente sulla sponda sinistra e destra del fiume.

La mia idea di localizzare in tale senso il Mercurion ascetico nasce in primo luogo da alcuni passi della vita di S. Leon-Luca di Corleone, che escludono dalla predetta zona e i monti ad ovest di Mormanno e il monastero di Vena, l’odierna Avena, ad essi prossimo; inoltre dai riferimenti contenuti nella vita di S. Nilo di Rossano, confermati da documenti posteriori, che inoltre ne aggiungono altri, portano a dover situare l’eremo di S. Nilo e i monasteri di S. Fantino, S. Zaccaria, S. Giovanni, di Castello, del Castellano, di S. Nicola e qualche altro nei luoghi già dominati dal castello di Mercurio ed ora facenti capo al centro di Orsomarso; ed infine, e principalmente, da numerosi e precisi dati offerti dalle vite di SS. Cristoforo, Saba e Macario di Collesano. L’apporto di queste vite, che si integrano a vicenda, è particolarmente prezioso, perché l’autore, Oreste patriarca di Gerusalemme, conobbe a Roma Saba e Macario e fu per qualche tempo in Calabria assistendo ad alcuni degli avvenimenti narrati.

Per Oreste la regione del Mercurion, folta di boschi densi ed estesi in tutte le direzioni, era sita tra la Calabria e la Longobardia: quasi una terra di nessuno nei riguardi dello spazio politico, ma vivendo solo in virtù degli asceti che vi abitavano. Pare anzi dalla breve, ma incisiva descrizione, che voglia essenzialmente indicarsi come Mercurion la media valle del Mercure-Lao, profonda, precipite ed angusta, e intenderla come un “vallo” non fra i temi bizantini di Longobardia e Calabria, bensì tra questo e i territori del principato longobardo di Salerno, indicati in altri testi agiografici come le “parti superiori” — rispetto al “Mercurion” — oppure la “regione dei principi”.

Il postulato della vita ascetica fiorente nella media valle del fiume riceve consistenza dal ritrovarsi sulla sponda sinistra, poco a ponente di Laino e all’altezza del villaggio di Montagna, i ruderi di una cappella medioevale desinente in una abside semicilindrica. Cappella che può essere stata il centro di riunione degli asceti di un monastero eremitico o di una “laura”, viventi nelle grotte naturali aperte sul fianco dei terrazzamenti incombenti; le quali, però, non hanno conservato tracce che possano riportarsi all’età medioevale, neanche quella detta dell’ “eremita” che pure ha dato con alcuni esemplari dell’industria litica ed ossea una grande lastra di pietra che porta incisa una figura di bovide — bos primigenius — risalente al paleolitico superiore. Il ricordo di questo centro si inserisce nel racconto di Oreste circa la vita eremitica nel Mercurion, ma non si identifica con il monastero di S. Stefano fondato da Cristoforo e Macario accanto ad una chiesetta derelitta in una contrada, presso il fiume, che venne bonificata e in parte messa a coltura in quanto questa zona che ancora ne conserva il nome è sita sulla destra del Mercure-Lao un poco a nord-ovest di Papasidero.

Sulla stessa sponda del fiume, ma ancora più a valle e ad ovest del monastero di S. Nicola de Tremulo, nella località omonima non lontana da Papasidero, era stato fondato in una contrada, anch’essa folta di varia vegetazione, da S. Saba e dai familiari e compagni non appena arrivati al Mercurion, il monastero di S. Michele Arcangelo: una volta ricordato dal patriarca Oreste in un contesto che permette situarlo in una località abbastanza vicina a quella occupata dal monastero dei Siracusani, già esistente alla venuta di S. Saba e che può con sicurezza identificarsi con quello di S. Nicola de Siracusa sito a Scalea e appartenuto alla Badia di Grottaferrata. A convalidare ciò sta anche il paesaggio che il racconto di Oreste ha come sfondo e che rispecchia la natura dei luoghi da me indicati; e cioè che il primo dei due monasteri era prossimo ad una campagna fertile, coltivata e popolata di agricoltori e che dall’altro si scorgeva la regione di Aieta e il mare.

La regione monastica mercuriense arrivava così fino al mare, tra la foce dell’Abatemarco e S. Nicola Arcella, dal quale, come altrove, erano arrivati alla fine del secolo IX, i fondatori dei monasteri dei Siracusani, dei Taorminesi e forse anche quelli dei Marcani, costituiti certo i primi due da massicce migrazioni di monaci fuggiti da Siracusa e da Taormina in seguito all’occupazione mussulmana di queste due città avvenuta, rispettivamente, nell‘878 e nel 902. Cose che fecero altri monaci tra cui quelli guidati da S. Cristoforo e dai familiari, i quali giunti per mare nella Calabria centrale si spinsero in un secondo momento fino alle spiagge del Mercurion sbarcando, forse più che a Scalea, nel piccolo porto naturale sottostante all’attuale abitato di S. Nicola Arcella, dove nel secolo XI incontreremo una chiesetta bizantina, meglio protetta dai venti e dalle burrasche per poi insediarsi in prossimità dei monasteri preesistenti, cioè in luoghi non lontani dalla costa, come del resto anche gli asceti viventi intorno al castello di Mercurio e nella zona adiacente; mentre la boscosa e selvaggia media valle del fiume ospitava, tranne qualche eccezione, maggiormente eremiti. Cosa che risulta dalla testimonianza del patriarca Oreste e dal fatto che alla metà del secolo X, intensificatisi gli sbarchi e le scorrerie dei Musulmani, che naturalmente battevano a preferenza le spiagge e le località adiacenti, la regione ascetica del Mercurion incominciò a spopolarsi cercando i monaci luoghi più interni ed impervi e perciò più sicuri: e tra la folla dei fuggenti sappiamo erano S. Fantino, rifugiatosi in Oriente a Tessalonica, S. Nilo, ritornato tra le montagne della sua Rossano, S. Saba e suoi compagni, trasferitisi nell’eparchia di Latinianon.

Nel secolo XI i confini del Mercurion verso settentrione appariscono ampliati, in quanto alcune fondazioni monastiche ricordate in documenti coevi, per gli stessi titoli che portano o per i particolari topografici che le accompagnano, inducono fondatamente a pensare per esse a delle localizzazioni a nord del territorio di Scalea, e precisamente in quello di Aieta e in altri luoghi ancora più settentrionali. A tale riguardo poco, però, si può ricavare dalle carte della prima metà del secolo XI, provenienti dal monastero di S. Nicola di Donnoso, sito presso il castello di Mercurio, che menzionano, senza specificare se rientrassero nella zona del Mercurion, le fondazioni del Patir, di S. Angelo, dell’Apostolo Andrea, di Kur Macario e di Mavrone. Invece uno spostamento dei limiti mercuriensi nella direttrice prima accennata balza dalla già citata carta del 1065, rilasciata da Roberto Guiscardo, nella quale vengono ricordati nelle “valle di Mercurio” i monasteri di S. Nicola dell’abate Clemente e di S. Pietro de Marcanito e la chiesa di S. Zaccaria e di S. Elia, o, forse meglio, le chiese di S. Zaccaria e di S. Elia, di S. Nicola de Digna e di S. Venere.

Il ricordo dei due predetti monasteri non aggiunge nulla alle cognizioni che fin qui abbiamo sui confini mercuriensi, dato che il primo si identifica con quello di S. Nicola di Donnoso, così denominato dal suo fondatore, e l’altro con il monastero dei Marcani, che doveva far gruppo con quelli dei Taorminesi e dei Siracusani: prossimo questo, come si è detto, a Scalea.

Molto interesse presenta invece per quanto si riferisce alle chiese di S. Nicola de Digna con il “porto” dei SS. Elia e Zaccaria e di S. Venere con il “casale” nel quale essa si trovava.

La chiesa di S. Nicola de Digna, infatti, si può legittimamente ubicare di fronte all’isola di Dino sul piccolo porto naturale sottostante all’odierno abitato di S. Nicola Arcella poco a nord del Capo Scalea. Le altre, se si accetta la mia interpretazione del documento del 1065, e che non compariscono nelle successive conferme di questo, intitolate a S. Elia e a S. Zaccaria, ritengo debbano identificarsi con le due chiese dedicate agli stessi santi, che documenti posteriori indicano situate nei pressi dell’attuale abitato di Praia a Mare. In tale modo la regione denominata Mercurion oltrepassava non solo la media e bassa valle del Mercure-Lao, ma ancora i confini settentrionali del suo bacino. Si dedurrebbe che la regione mercuriense tanto indefinita nel secolo X, come si è detto, nello spazio politico, continuasse anche nel secolo seguente ad essere vista e intesa in una astrazione dalla realtà che le poneva confini vaghi e indeterminati. Sì che, sulla base di questo concetto, non sarebbe inverosimile situare la chiesa di S. Venere nella magica cornice del Capo S. Venere dove erano vestigia di abitazioni, sul mare di Maratea che continua quella di Aieta.

Restando, dunque, a quanto, senza preconcetti, si è esposto, i limiti dell’area monastica mercuriense nel secolo X coincidono esattamente con le parti media e inferiore della valle del Mercure-Lao, per poi slargarsi nel secolo XI verso nord e così includere la zona marittima da Scalea, per S. Nicola Arcella e Aieta, a Maratea.

BIAGIO CAPPELLI

Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA”  – Il Coscile

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