La costruzione dell’autostima a scuola

 

La scuola ha a che fare con quella fase precaria dell’esistenza che è l’adolescenza, dove l’identità appena abbozzata non si gioca come nell’adulto tra ciò che si è e la paura di perdere ciò che si è, ma nel divario ben più drammatico tra il non sapere chi si è e la paura di non riuscire a essere ciò che si sogna.

Nell’intervallo dischiuso da questo duplice non sapere si muove incerta l’identità dell’adolescente, che la nostra società obbliga a una maturazione accelerata, senza sapere indicare, come accadeva alle generazioni precedenti, quella continuità tra preparazione attraverso gli studi e ingresso nel mondo del lavoro che costituiva la prima saldatura di un’identità la quale, pur nella sua incertezza, si ancorava a una certezza futura.

La garanzia della realizzabilità del progetto prefigurava, nell’identità futura, quel concetto di sé indispensabile per non brancolare nell’oscillazione dell’indeterminato. Ma per la formazione di un adeguato concetto di sé occorre quella considerazione positiva che siamo soliti chiamare autostima, e quell’accoglimento del negativo che è l’autoaccettazione, indispensabile per far fronte agli eventi avversi della vita.

Autostima e autoaccettazione sono tenute dalla scuola in minimo conto. L’autostima dello studente è scambiata spesso per presunzione, e l’autoaccettazione come un esplicito riconoscimento da parte dello studente di non valere un granché. Se poi è lo stesso studente a esser convinto di valere poco, il professore si sente assolutamente assolto nel suo ribadire, con voti e giudizi negativi, quel nulla che lo studente avverte già per suo conto dentro di sé. E così, “per non fare ingiustizie”, “per non usare due pesi e due misure”, per simili considerazioni che fioriscono sulle labbra apparentemente innocue di tanti professori, si allarga e si approfondisce quella dimensione del vuoto che talvolta porta a gesti irreversibili.

A evento compiuto, di solito i professori manifestano meraviglia. Non si meravigliano della loro disattenzione, ma dell’imprevedibilità di un simile gesto in un ragazzo che sembrava così “allegro” e “vivace”. Perché, nonostante il gran frequentare letture umanistiche in cui sono descritte tutte le pieghe dell’anima, molti professori ancora non sanno distinguere, nel riso di un giovane, lo spunto della gioia o la smorfia della tragedia imminente.

Ma chi tra gli insegnanti accerta, oltre alle competenze culturali dei propri allievi, il grado di autostima che ciascuno di loro nutre per se stesso? Chi tra gli insegnanti è consapevole che gran parte dell’apprendimento dipende non tanto dalla buona volontà, quanto dall’autostima che innesca la buona volontà? Chi, con opportuni riconoscimenti, rafforza questa autostima, primo motore della formazione culturale, ed evita di distruggerla con epiteti e derisioni che, rivolti a persone adulte, porterebbero di corsa in tribunale? Chi si astiene dal mettere a confronto il comportamento di un allievo con quello di un altro, irrobustendo chi è già solido e distruggendo chi è già incerto e mal sicuro? Chi ascolta uno studente con interesse riconoscendogli un minimo di personalità, su cui egli possa continuare a edificare invece che a demolire? Pochi, pochissimi insegnanti nella scuola italiana, a cui si accede per competenze contenutistiche e non per formazione personale, in base al principio che l’educazione è una conseguenza diretta dell’istruzione.

 

UMBERTO GALIMBERTI

Da “L’ospite inquietante”, di U. Galimberti – Feltrinelli

Foto: Rete

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