MIMNERMO, poeta dell’amore e della bellezza

 

La critica moderna più autorevole ci fornisce due immagini principali del poeta Mimnermo: un Mimnermo gaudente e decadente, un Mimnermo «filosofo della vita». Più semplicemente gli antichi, dagli epigrammatisti dell’Antologia a Callimaco ai grammatici, lo ricordarono come poeta dell’amore. Fu tale anche l’idea che ne ebbero i Romani, cioè Orazio (Ep. I 6, 65) e Properzio nel verso famoso:

Plus in amore valet Mimnermi versus Homero (I 9, 1.1).

Come poeta dell’amore è sostanzialmente rimasto Mimnermo presso il «pubblico» dei lettori. Dei versi di lui pervenutici la maggior parte si aggira sul tema dell’amore.

Ovviamente dire «poeta dell’amore» non equivale a definire un poeta, l’espressione essendo oltremodo generica oltreché, nel nostro caso, unilaterale. Si dirà forse meglio poeta dell’amore e della bellezza e del loro fiorire insieme e del loro sfiorire, dell’amore e del piacere o del loro congiungimento in un comune destino di vita e di morte, dell’amore e della gioia e della giovinezza e del loro reciproco interferire nel volgere, ahimè, di breve vita.

Un poeta che, come Mimnermo, abbia codesti interessi sentimentali e fantastici, ha evidentemente anche un suo proprio modo di concepire e sentire la vita, un suo mondo morale (ma chi in fondo non ne ha uno?), una sua sostanza umana materiata di ricerche e di esperienze e di meditazioni. È probabile anche che […] Mimnermo sia stato fra i primi a far sì che «la poesia includa nei propri limiti la sfera del godimento personale della vita…, cosa nuova e cospicua per la cultura umana», ma tutto ciò non giustifica l’affannarsi che si fa da alcuni critici, a presentare un Mimnermo poeta-filosofo in contrapposto ad un Mimnermo poeta puro. […]

Per intendere la poesia di Mimnermo occorrerà guardare al modo in cui egli traduce in intuizioni di bellezza le emozioni e le preoccupazioni del suo animo, e come cedeste intuizioni si presentino a noi sotto forma di magici versi, ora nitidi (per es. fr. 5, 1),

Frammento 5

Subito per la pelle mi scorre sudore copioso,

e io tremo a contemplare il fiore della giovinezza,

seducente e a un tempo leggiadro.

Potesse durare più a lungo!

Ma l’età cara è fuggitiva come un sogno.

A un tratto le incombe sul capo

la vecchiaia dolorosa e deforme,

odiosa e spregevole a un tempo.

Essa fa dell’uomo un perfetto sconosciuto,

e col suo velo gli acceca vista e intelletto.

ora opulenti (fr. 2, 1 sg.),

Frammento 2

Noi invece, quali foglie fa nascere la fiorita stagione

di primavera, non appena crescono ai raggi del sole,

ad esse simili per breve tempo dei fiori di giovinezza

godiamo, dagli dei non conoscendo né male

né bene; e le Kere ci stanno accanto nere,

l’una tenendo la fine della dolorosa vecchiaia,

quell’altra della morte; e pochissimo dura di giovinezza

il frutto, quanto cioè sulla terra si volge il sole.

Poi quando certo sopraggiunge questa fine di giovinezza,

subito esser morti (è) meglio della vita:

molti mali infatti si verificano nell’animo: qualche volta il patrimonio

si dissolve, e si impongono i dolorosi effetti di povertà;

un altro invece poi sente la mancanza dei figli, dei quali moltissimo

soffrendo il desiderio va sotto terra nell’Ade;

un altro ha una malattia che distrugge la mente; né c’è alcuno

tra gli uomini al quale Zeus non dia molti mali.

ora secchi ed aspri (fr. 1, 10),

Frammento 1

E quale vita, e quale gioia senza l’aurea Afrodite?

Vorrei essere morto quando a me non più questo importi,

l’amore clandestino e i dolci doni e il giaciglio,

che di giovinezza sono i fiori fuggevoli

per uomini e per donne; quando invece dolorosa sopraggiunge

la vecchiaia, che brutto e spregevole insieme rende l’uomo

sempre nell’animo tristi lo tormentano inquietudini,

né si rallegra al vedere i raggi del sole,

ma (è) inviso ai bambini e disprezzato dalle donne;

così dolorosa il dio ha fatto la vecchiaia!

 ora molli e dolci (fr. 1, 13), e come sull’orizzonte disteso del suo canto vengano a vivere «i doni d’amore dolci come il miele» e i fiori della primavera accanto alle immagini tristi e tetre della vecchiaia, e come questo poeta che, se mai altri, mostra di essere attaccato alla vita e ai suoi doni, giunga ad un punto a scrivere un verso raggelante come questo:

Subito esser morti (è) meglio della vita.

Gli interessi di Mimnermo sono in fondo quelli elementari, che incidono sull’umanità essenziale di ciascuno, l’amore la giovinezza le gioie della vita l’orrore della vecchiaia, interessi antichi che avevano posto nel cuore degli uomini del suo tempo così come lo hanno in quelli di oggi. Ma nuovo è il modo in cui egli si accosta a cedeste esperienze universali, e il come insieme le unisce o in splendido connubio o in drammatico contrasto. Sarà bene rifuggire anche qui dalla formula stringente, e non proclamare né che Mimnermo sia un pessimista né che sia un ottimista (e tanto meno, naturalmente, che sia un nevrastenico (!) come voleva il Romagnoli), che non è ad una determinata Weltanschauung che egli aderisce, ma ad un senso concreto dei palpiti dell’umanità, che sono sempre intessuti di gioia insieme e di dolore e che in codesto loro essere contraddittorio e travagliato trovano significazione e talora anche bellezza. La sua adesione è intensa e spesso esasperata. La suggestione della bellezza, della forma bella, della natura bella, si accosta in lui naturalmente alla visione dell’amore e del piacere, con quel tanto di estetismo che era nel fondo di ogni greco, e con quel tanto di edonismo che non poteva mancare nella umanità di un asiatico, senza che per questo l’individuo dovesse necessariamente essere un decadente o un materialista. Ma l’accostamento non è la fase finale della sua ricerca, che subito anzi vien superato e risolto in desolata angoscia dal balenar che fa dinanzi ai suoi occhi l’immagine della vecchiaia, non l’età della matura serenità e della saggezza quale era per Solone, ma quella nella quale la bellezza va in rovina e si perdon con essa i piaceri dell’amore.

L’immagine del volger triste della vecchiaia era presente a Mimnermo di continuo, e s’è già veduto come egli trovasse modo di inserirne il motivo anche nelle sue narrazioni a sfondo mitologico quando in un episodio del suo poema elegiaco cantava il mito di Titono. Ugualmente presente al suo animo doveva essere un certo sfiduciato rammarico per la condizione del tempo suo, […] perché veniva spontaneo il confronto con un periodo più ricco di vita e di attività, di significato concreto in fin dei conti, a chi altra scelta ormai non restava che cantar le gioie e i miraggi dell’amore e del piacere, per di più così intrisi di amarezza e di dolore come egli li vedeva.

Il culto del piacere unito all’orrore della vecchiaia, la mancanza di veri e propri ideali eroici, il senso della vita individuale e del suo circoscritto giro spinto sino all’estremo fanno di Mimnermo, come è stato a ragione rilevato dal Lavagnini, un precursore dell’alessandrinismo. […].

Il fondo della sua lingua, come accade del resto per quasi tutta la lirica arcaica, è quello omerico, omerici sono molti suoi motivi poetici. Talvolta egli studiatamente innova, ma la sua ricerca è sempre nel senso della essenzialità formale e non della ridondanza; la politezza che rende luminosi i suoi versi è vibrante eli virtù espressiva e non si ripiega su se stessa per divenire arida e polverosa; il moto delle immagini, che in tanta parte dell’Antologiaè stucchevole gioco, è in lui sciolto da qualsiasi artifizio, intimamente connesso al vibrare del sentimento, con esso un tutt’uno. Necessari, come lo sono le immagini, sono gli aggettivi e la collocazione delle parole, sicché la lingua di Mimnermo si presenta insieme sobria e luminosa, e la sua ricchezza è in ragione della sua intensità. Caratteristico è il fatto che i termini che egli usa e che non ricorrono né in Omero né in Esiodo né negli Inni, sono tutti nell’ambito dei terni che gli eran cari, bellezza gioia dolore brevità della giovinezza; par che il poeta abbia voluto a bella posta conferire a cedesti termini il crisma della rarità e della unicità allo scopo di rilevarne l’intensa portata espressiva e di renderli indicativi appunto di qualcosa di insostituibile e di vigorosamente risonante nel suo animo.

Ma anche quando la forma che usa è prettamente omerica, la sottopone egli sempre ad un processo per così dire di rinnovamento, nel senso che la ridà a nuova vita spogliandola di quanto di convenzionale o di esornativo essa potesse avere.

[…]

Ad un tema omerico Mimnermo s’ispirò anche in quello (fr. 2) che tra i suoi componenti che conosciamo è il più bello. Omero mette in bocca a Glauco, rivolto a Diomede, le famose parole:

Quale appunto la stirpe delle foglie tale (è) anche (quella) degli uomini.

Le foglie alcune il vento a terra le versa, altre invece la selva

rigogliosa fa nascere, e sopraggiunge la stagione di primavera;

così la stirpe degli uomini, l’una nasce, l’altra invece viene meno.

(IIiade. VI 146-149).

 

Mimnermo riprende il motivo dell’avvicendarsi delle generazioni delle foglie, ma mentre in Omero si tratta di uno sguardo, per certo aspetto, ottimistico, all’analogia che v’è in natura tra la vita degli uomini e quella delle piante, nel Nostro invece par che si dimentichi che in quell’avvicendarsi di vita e di morte è appunto il fluire della vita, e si sottolinea soltanto una delle due fasi, quella della morte e, in particolare, di quella morte anticipata ch’è per il poeta la vecchiaia, di fronte alla prospettiva della quale la giovinezza dura breve stagione, proprio come fan le foglie a primavera.

Noi invece, quali foglie fa nascere la fiorita stagione

di primavera, non appena crescono ai raggi del sole,

ad esse simili per breve tempo dei fiori di giovinezza

godiamo, dagli dei non conoscendo né male

né bene; e le Kere ci stanno accanto nere,

l’una tenendo la fine della dolorosa vecchiaia,

quell’altra della morte; e pochissimo dura di giovinezza

il frutto, quanto cioè sulla terra si volge il sole.

Poi quando certo sopraggiunge questa fine di giovinezza,

subito esser morti (è) meglio della vita:

Su quest’ultimo punto Mimnermo si sofferma in modo particolare. E un altro famoso e suggestivo motivo omerico gli si presenta alla fantasia, quello dei due fati di Achille (cfr. Iliade. IX – 411 sgg.), una esistenza breve ma con gloria o una lunga vita senza nome. Egli esaspera l’alternativa e dice che due Keres, sono presso ciascun uomo, l’una della morte l’altra della vecchiaia; in sostanza le due s’equivalgono, che ove la giovinezza finisca tosto la morte è preferibile alla vita. In tal modo, da due variazioni su due punti omerici, il colofonio costruiva il suo componimento più bello, e vi aggiungeva l’impronta della sua estrema sensibilità musicale – notevole, soprattutto, nei primi distici – e della sua delicata immaginazione e del suo ardente desiderio di vita, offuscato forse dall’ombra della delusione incombente ma non per questo mono pulsante.

In questo senso Mimnermo è anche il poeta della giovinezza, forse non tanto della spensieratezza giovanile […] fr. 2, 4-5, […], quanto di una giovinezza che, ellenicamente intessuta del senso di opposte esperienze, trova modo di vincerla in gioia e in bellezza sul triste destino, seppur per un momento e seppur senza smarrire il senso della fuggevolezza della gioia stessa e della bellezza. In fondo proviene proprio da codesto suo contrastante atteggiarsi il fascino pungente della giovinezza. E dall’averle intuito deriva il fascino di Mimnermo nel quale in realtà – finemente nota il De Falco – come « in nessun altro poeta si incontrano più intensi e sentiti e profondi la nostalgia e il rammarico del momento che passa, questa malinconia del destino del fiore, che appena sbocciato, già presenta i segni del prossimo appassire ».

ANTONIO GARZYA

Da “PAGINE CRITICHE DI LETTERATURA GRECA” – Le Monnier

Foto: Rete

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