
Ingresso dei militi francesi a Napoli, il 22 febbraio 1495. Cronaca figurata del Quattrocento di Melchiorre Ferraiolo
Nelle cronache italiane della fine del ‘400 e degli inizi del ‘500 si leggono notizie allarmanti di una nuova e terribile malattia epidemica. «Strania et oribile», «non più sentita», «non più nominata», «fiera»: queste sono le definizioni che si leggono nei cronisti. Mancavano nomi per definirla: se ne parlava come di malattia «delle bolle» per le sue manifestazioni iniziali (comparsa di un nodulo duro, seguita poi dal rigonfiamento generale delle linfoghiandole e da diffuse eruzioni cutanee). Ma il nome implicava una definizione, un abbozzo di spiegazione: e questo era difficile.
La malattia muoveva i suoi primi passi a partire dagli organi genitali, per giungere poi lentamente alla distruzione completa della persona, nel suo aspetto fisico come nelle sue funzioni intellettuali: dunque, era evidente che il terribile spettacolo degli ammalati giunti all’ultimo stadio era da connettere alla sfera dei rapporti sessuali. Era la sregolatezza umana che veniva colpita: su questo non c’erano dubbi. Una cultura e una sensibilità religiosa tradizionalmente pronte a considerare le malattie come flagelli mandati da Dio per punire gli uomini non avevano bisogno di segni più espliciti di quelli che si trovarono allora davanti. Dare il nome a quel fenomeno voleva dunque dire anche trovare il colpevole. Per questo, in attesa di una spiegazione scientifica — che giunse molto tempo dopo, nel 1905 — le discussioni si concentrarono sul nome e sull’implicita individuazione delle cause.

Uno Spagnolo viene sottoposto al trattamento per la cura della sifilide (o male di Napoli o, più tardi, male francese). [Organizzazione mondiale della sanità, Ginevra]
C’era dunque un dato di fatto: la calata dei Francesi in Italia con Carlo VIII nel 1494 aveva contribuito a diffondere l’epidemia. Ma c’era anche — e Guicciardini non lo nascondeva — un pregiudizio pronto ad affiorare sempre in casi di questo genere: la malattia è un’aggressione che viene dall’esterno, sono sempre gli “altri”, i nemici, gli stranieri che la portano in un paese (o in un organismo] sano. Se per gli Italiani erano stati i Francesi a portarla, per i Francesi erano invece colpevoli gli Italiani. Si poteva tentare di trovare ancora più lontano i colpevoli — lontano dal mondo cristiano, naturalmente, e quindi tanto dai Francesi quanto dai Napoletani; ed ecco la spiegazione, accolta tra gli altri dal cronista Sigismondo de’ Conti da Foligno: «questa malattia,sebbene fosse detta morbo gallico dai francesi, non derivò da loro ma dai marrani (1) che erano stati cacciati dalla Spagna e che Ferdinando aveva accolto a Napoli. Infatti, gli ebrei… sono soggetti alla lebbra più di tutti gli altri popoli». È una proposta che comporta anche una teoria particolare sulla malattia: questa non sarebbe nuova ma deriverebbe dalla lebbra, il male da sempre temuto e considerato una punizione divina.
Ma, prima di soffermarci sulla questione della “novità” o meno, vediamo come si giunse a dare un nome e una spiegazione di quella epidemia. La tesi che indicava negli Ebrei i portatori ebbe qualche sostenitore: quando i sovrani di Castiglia e d’Aragona avevano posto gli Ebrei spagnoli davanti all’alternativa di convertirsi al cristianesimo o emigrare, c’era stata una migrazione di folle dalla Spagna verso l’Italia, dove si poteva contare su di una minore intolleranza. Nel 1493 migliaia di profughi si erano attendati alle porte di Roma e, secondo un cronista romano, una malattia epidemica aveva fatto strage di loro e della popolazione romana. Sembrava dunque possibile trovare un capro espiatorio che fosse radicalmente “altro” rispetto alle nazioni cristiane: gli Ebrei, simbolo dell’ira divina sulla terra, veicolo di infezioni dottrinali e fisiche nel corpo della società cristiana.
E tuttavia si poteva andare anche più lontano. All’incrocio di quel drammatico decennio finale del ‘400 il mondo si era improvvisamente allargato ben oltre i confini già noti, e sull’orizzonte europeo si erano affacciate popolazioni nuove e radicalmente diverse; i “selvaggi” d’America o — come allora si preferiva dire e pensare — delle Indie erano stati descritti come privi di legge e di morale, in uno stato di natura che scandalizzava gli osservatori europei: e allora, perché non pensare che la nuova malattia venisse da lì?
Lo storico spagnolo della scoperta dell’America, Gonzalo Fernàndez de Oviedo, rivolgendosi all’imperatore Carlo V si diceva assolutamente sicuro che questa fosse la spiegazione giusta e ironizzava sul gioco di scaricabarile che intanto si svolgeva tra Italiani e Francesi: «Mi ridea molte volte in Italia sentendo dagli italiani nominare il mal francese et dalli francesi dir il malo di Napoli… Questi et quelli havrebbono indovinato il vero nome se il male dell’Indie chiamato l’avessero». La promiscuità sessuale degli indios ne era la causa e il comportamento dei conquistadores aveva fatto sì che la nuova malattia giungesse in Europa.
Il nome ufficiale fu un altro. Nessuna delle quattro proposte fin qui riassunte vinse il concorso. Fu un medico italiano, il veronese Girolamo Fracastoro, che, meditando sugli effetti distruttivi della nuova malattia, compose un poema latino sull’argomento (1530) e lo dedicò al papa Leone X, intitolandolo Syphilis sive de morbo gallico (Sifilide, ovvero mal francese). Dal nome del pastorello Sifilo, protagonista del poema, venne il termine che rimase nella storia della medicina e nella lingua corrente: sifilide.
Insieme al nome, il Fracastoro propose anche una vera e propria analisi scientifica delle malattie contagiose. La cultura umanistica, dunque, posta davanti ad un fenomeno epidemico spaventoso per i suoi effetti e per la sua ampiezza ed evidentemente connesso alle abitudini sessuali, evitò di individuare un capro espiatorio preciso in questo o quel gruppo etnico e fece a meno di evocare flagelli e punizioni divine per tentare invece di analizzare freddamente cause e forme del contagio.
Nella corte romana di Leone X, dove si leggeva il poema di Fracastoro, c’erano anche persone che tentavano di operare concretamente per un intervento assistenziale verso i colpiti dalla nuova epidemia. Se i lebbrosi, nei secoli precedenti, erano stati accuratamente esclusi dalla comunità, i malati di sifilide vennero invece accolti in ospedali e lì assistiti dai membri di confraternite laiche che praticavano la carità in nome del “divino amore” manifestato da Cristo verso tutte le creature: quegli ospedali ebbero un nome terribile nell’uso corrente — si chiamarono infatti «degli Incurabili» — ma furono la dimostrazione pratica che si intendeva in realtà curare quel tipo di ammalati e non abbandonarli a se stessi.
Anche in questo si può trovare la prova che la tendenza espansiva e aggressiva della società europea manifestatasi alla fine del ‘400 non tollerava forme di chiusura né subiva terrori di flagelli divini fino a fuggire dal contatto con gli “altri”, coi “diversi”.
Da “L’età moderna” 2, di A. Camera e R. Fabietti – Zanichelli
Foto: Rete