Della virtù di stupirsi

Se si consultano i maestri, si imparerà che la prima condizione per imparare a pensare è quella di coltivare in sé la facoltà dello stupore. E lasciatemi citare queste frasi tratte dal capitolo primo della Metafisica di Aristotele :

«Gli uomini per natura aspirano a sapere. Ciò che lo prova, è che si amano le percezioni dei sensi: anche quando non proviamo bisogno, queste percezioni ci piacciono di per sé, e più che tutte le altre quelle che riceviamo dagli occhi. È al di fuori di ogni considerazione pratica e per così dire al di sopra di tutte le cose che noi amiamo vedere».

In questa osservazione così semplice e così antica, il vecchio maestro ha trasfuso qualche cosa della sua anima ingenua e di quella meraviglia del primitivo, del prigioniero, dell’artista e del bambino davanti alle cose più ordinarie e che stancano i nostri sensi. I convalescenti conoscono il valore dell’aria che si respira, e il semplice godimento della luce e di tutte le «differenze» ch’essa permette di scorgere nell’orizzonte (come Aristotele dice più oltre) ci dovrebbe colmare di stupore e di gioia.

L’ideale sarebbe di essere così in ogni occasione, e non solo di fronte a percezioni dei nostri sensi, ma di fronte a tutto quello che si presenta allo spirito. Come ogni ideale, questo fissa un limite inaccessibile. Ma è bene avere in testa questo limite: esso è un’unità di misura. Noi diciamo che l’atto di pensare suppone una innocenza ritrovata, una maniera verginale di concepire e di sentire. Si tratterà dunque, mediante una disposizione singolare della volontà, — singolare, dico, poiché deve sfociare in uno stato di apertura, di docilità e di abbandono — di ottenere dal proprio spirito che voglia accettare di vivere un istante sulla terra come se avesse appena fatto scalo tra gli uomini durante il viaggio interstellare.

E non sarebbe un paradosso dire che la prima virtù dell’intelligenza è di aver l’impressione di non comprendere. Come è utile a un professore avere tra il suo uditorio un alunno intelligente e che non afferra quello che vien detto! Jules Lemaìtre diceva: «II mio miglior alunno è quello che non è del mio parere». Migliore ancora forse quello che comprende di non comprendere. La maggior parte del tempo noi ci immaginiamo di comprendere. E, quando vogliamo spiegare, siamo nell’imbarazzo. In realtà, avevamo avuto l’illusione di comprendere; le parole sostituivano le cose; una certa emozione fittizia ci lasciava credere di aver penetrato il senso delle formule. Ma il contatto dello spirito con la cosa non si era operato.

Da ciò, noi afferriamo la differenza tra colui che non pensa e colui che pensa. Anche davanti al mistero, il primo si dice sempre: «Ma è evidente!». Anche davanti all’evidenza, il secondo si dice ancora: «Non ci capisco niente». Il primo passo del pensiero è una certa non intelligenza davanti a quello che il mondo crede comprendere.

Per compiacere alla principessa Elisabetta di cui gli piaceva lo spirito, Descartes aveva steso un piccolo trattato sulle passioni. Seguendo nello stesso tempo il gusto del secolo e le regole del suo metodo, cercava di riportare le passioni a qualche passione prima e fondamentale da cui si potessero dedurre tutte le altre. Ora, sapete […] qual era agli occhi di Descartes la passione primaria ed essenziale? Non era affatto l’amore, come più tardi per Bossuet, né il desiderio, né il voler essere, come per Spinoza. Era l’ammirazione. Quale era esattamente l’atteggiamento dell’anima che Descartes intendeva con questa parola? Per dirlo con precisione bisognerebbe senza dubbio conoscere la sua storia e la sua intimità; ma noi ben sentiamo che egli ha espresso qui in vocabolo astratto quel fremito di sorpresa davanti all’essere che era nel suo genio.

Cartesio, ritratto da Frans Hals

Osservate d’altronde il viso di Descartes nel famoso ritratto di Frans Hals nel Museo del Louvre, o, ancor meglio, quel ritratto di Pascal disegnato dal vero da Domat sulla copertina di un volume della sua biblioteca, e guardate il loro sguardo: scoprite nell’uno e nell’altro caso lo stesso sguardo lontano. Degli occhi di Pascal, Emile Boutroux diceva che non si può sapere «se attirano per il bel genio che manifestano o se intimidiscono per la loro impressione di distacco». È vero, ma questo distacco è dell’ammirazione, di cui è unico l’atto di scoprire e di rispettare. Ed è questa la ragione per cui bisogna insegnare agli adolescenti l’arte di ammirare, ed è in questo che consiste a mio parere uno dei segreti dell’educazione.

Che si scenda in sé, e si noterà che le gioie gustate dalla nostra età matura nel campo delle lettere o delle arti, deriva dal fatto che, in passato, un maestro aveva sollevato su un punto il velo della consuetudine, comunicandoci un’ammirazione ch’egli nutriva, sempre nuova, nel suo cuore.

Non è tanto per quello che ci insegnava che egli ci istruiva, perché noi l’avremmo potuto, a rigore, trovare in un libro. Ma ci aveva fatto penetrare nella sua emozione. Dire come, sarebbe impossibile. È come volere spiegare nell’ordine delle sensazioni quello che è la risonanza, la fosforescenza o il sapore. Questo nescio quid che si aggiungeva al resto, come il rossore si aggiunge ai movimenti del pudore, come il lampo dello sguardo a quelli dell’indignazione, non credete che provenisse precisamente da una ammirazione sempre nutrita?

Studiarne dunque insieme i mezzi per coltivare in noi l’ammirazione. Io ne distinguerei due, secondo che si tratta dell’ammirazione passiva o dell’ammirazione attiva.

 

JEAN GUITTON

Da “L’arte nuova di pensare” – Edizioni Paoline

Foto: Rete

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