Il pino di Attis ovvero il Figlio

Pinus pinea

Le varie specie di pino – dal Pinus pinaster o marittimo, che produce fra l’altro molta resina, al Pinus pinea o pino a ombrello dall’ampia e fessurata chioma di forma appiattita, e al Pinus montana che cresce sulle Alpi e sugli Appennini – sono alberi gioiosi a vedersi, che evocano con gli aghi sempreverdi immagini di perennità e d’immortalità, e col loro profumo balsamico una divinità benevola. In epoca arcaica in Grecia erano consacrati a Rea, la Grande Madre.

Successivamente nacque un mito che aveva come protagonista la ninfa Pitis. Per sfuggire al dio Pan che voleva violarla chiese e ottenne di essere trasformata nell’albero cui diede il nome. Secondo un’altra versione, Pitis aveva due pretendenti, Pan e il vento del Nord Borea. Quando Pitis scelse il primo, Borea si vendicò col suo soffio impetuoso precipitando la poveretta dall’alto di una roccia. La Terra, impietosita, trasformò il suo corpo in un pino. Pan addolorato decise da quel momento di adornarsi la fronte con corone di quest’albero. Si narra, infine, che quando in autunno Borea, ovvero la tramontana, comincia a soffiare per i boschi scuotendo i rami dei pini, la ninfa arborea piange, come si vede dalla resina trasparente che gocciola dalle pigne.

Il pino era anche sacro a Dioniso. Secondo Pausania i Corinzi ricevettero da Delfi l’ammonimento di venerare quest’albero «al pari di un dio»; sicché essi fecero scolpire sul suo legno un’immagine di Bacco.

Una misteriosa parentela collegava il pino alla vite: si diceva che esso crescesse nei terreni caldi, dove meglio prospera la vite e che la sua resina servisse alla conservazione e al miglioramento del vino: usanza che si ritrova ancora oggi in Grecia con quello resinato. «Una misteriosa saturazione» scrive Walter Friedrich Otto «da paragonarsi al contenuto della vite pareva manifestarsi nell’essenza squisita che sgorga dal suo tronco, e proprio perché Dioniso – dice Plutarco – è il signore della maturità e della generazione il pino gli appartiene (come appartiene anche a Poseidone).»

Attis, il dio che muore e rinasce

II pino è ermafrodito: produce fiori sia maschili sia femminili. In aprile-maggio, quando si aprono gli amenti maschili, il vento diffonde il loro abbondante polline giallo su tutto il terreno circostante, quasi fosse una nube fertilizzante. È probabile che queste sue caratteristiche abbiano ispirato in Asia Minore un mito che aveva per protagonista un androgino.

Sulla frontiera della Frigia vi era, nei pressi di Pessinonte, una scogliera deserta chiamata Agdos, dove si adorava Cibele in forma di roccia. Papas, il dio del cielo, poi assimilato a Zeus dai mitografi greci, si era innamorato della dea. Un giorno, tentando invano di unirsi a lei, sprizzò il suo seme che cadde sulla roccia. Secondo un’altra versione, egli emise il seme nel sonno. La roccia, fecondata, generò un androgino, Agdìstis, così selvaggio e indomabile da preoccupare gli dèi. Un giorno essi decisero di castigare la sua tracotanza incaricando dell’arduo compito Dioniso. C’era nelle vicinanze una sorgente alla quale Agdìstis soleva dissetarsi quando era accaldato, durante le lunghe cacce nei boschi. Dioniso ricorse a uno stratagemma trasformandone l’acqua in vino. L’androgino bevve l’insolita bevanda e cadde in un sonno invincibile.

Il dio, che stava in agguato, ne approfittò per legare con una solida fune il membro maschile a un albero. Quando Agdìstis si fu destato dall’ebbrezza, balzò in piedi con uno slancio così poderoso che la fune lo evirò, mentre un fiotto di sangue inondava la terra: magicamente fecondo visto che dal terreno sorse un melograno con un frutto.

Un giorno Nana, la figlia del dio fluviale Sangarios, che si trovava a passeggiare in quel luogo, vide un melagrana pendere da un arbusto. Era un frutto così invitante che non resistette alla tentazione: la colse e se la mise nel grembo. Ma la melagrana sparì improvvisamente mentre la principessa, sconcertata, rientrava al suo palazzo avvertendo uno strano languore: era l’inizio della gravidanza.

Sangarios, sdegnato, fece imprigionare la figlia come donna disonorata, condannandola a morir di fame, ma Agdìstis la nutrì con frutta e cibi divini finché ella partorì un bambino. Il dio fluviale, irremovibile, fece esporre il neonato, che sarebbe morto se non fosse stato nutrito da un caprone con un suo misterioso «latte». Lo si chiamò Attis perché nella lingua lidica un bel bambino si diceva attis o forse perché in quella frigia il caprone era detto attagus.

Attis divenne un giovinetto così bello da fare innamorare Agdìstis. La selvaggia divinità lo accompagnava sempre a cacciare per i boschi. Un giorno, per motivi che non ci sono spiegati, re Mida di Pessinonte decise di dargli in moglie la figlia Atta.

Mentre si celebravano le nozze, comparve improvvisamente Agdìstis che, al suono di una siringa, il flauto dei pastori sacro a Pan, scatenò la follia fra tutti i presenti. Attis prese a vagare per la radura stracciandosi le vesti e gemendo finché, afferrato un pugnale rituale, si evirò sotto un pino urlando: «A te Agdìstis», e dissanguato morì. Dal suo sangue colato sul terreno spuntarono viole mammole. Disperata, la figlia di re Mida si uccise, e anche dal suo sangue nacquero viole.

Agdìstis, pentito del suo gesto, chiese a Papas di resuscitare Attis, ma ottenne soltanto che il suo corpo non si decomponesse mai, che i capelli continuassero a crescere e il dito mignolo rimanesse vivo e si muovesse. Secondo un’altra versione del mito Attis venne invece trasformato in un pino. Infine Agdìstis trasportò il corpo (o il pino) a Pessinonte dove lo seppellì, fondando un collegio di sacerdoti e indicendo una festa in suo onore.

La versione del pino divenne poi quella comunemente accettata, tant’è vero che Ovidio scriveva:

e il pino dall’ispido capo e dalle succinte chiome,

caro alla madre degli dèi, se è vero che il cibeleo Attis

per lei si spogliò della sua figura d’uomo

indurendo in quel tronco.

Quelle «succinte chiome» inducono a congetturare che il pino di Attis sia quello a ombrello, coronato di rami soltanto nella parte superiore, spesso a grande altezza dal suolo. I versi di Ovidio rivelano inoltre l’identità fra Agdìstis e Cibele, la grande dea frigia chiamata Madre degli dèi o Grande Madre e simboleggiata a Pessinonte dalla «pietra nera», poi trasportata nel 204 avanti Cristo sul Palatino, a Roma, dove venne costruito un tempio in suo onore. Talvolta la si raffigurava come una regina seduta su un trono con la testa coronata di torri e accompagnata da due leoni.

La dea doveva rappresentare arcaicamente la totalità primordiale che racchiudeva in sé le coppie di opposti ed era perciò bisessuata: un androgino. Androgina era considerata la pietra, androgino era l’essere generato dalla pietra: l’opera fecondatrice di Papas-Zeus testimonia soltanto uno stadio religioso successivo, quando la civiltà matriarcale mediterranea venne subordinata a quella apollinea, patriarcale, giunta dal Nord con gli Elleni.

La creazione iniziava soltanto con l’autocastrazione della divinità androgina da cui nasceva la polarità sessuale: l’autocastrazione di Agdìstis, l’autocastrazione di Attis.

 

ALFREDO CATTABIANI

Da “Florario” – Mondadori

Foto: Rete

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