Ecco come siamo diventati “americani”

 

In un articolo dell’ottobre 1947 sulla pubblicità negli Usa, Marshall McLuhan ricordò il seguente aneddoto:

Alcuni mesi fa un ufficiale dell’esercito americano, corrispondente dall’Italia per il «Printer’s Ink», notava con apprensione che gli italiani sanno dirti il nome dei ministri del governo ma non il nome dei prodotti preferiti dalle celebrità del loro paese. Per di più gli spazi murali delle città italiane sono riempiti più di slogan politici che di slogan commerciali. Secondo la previsione di questo ufficiale ci sono poche speranze che gli italiani giungano mai ad uno stato di prosperità o di calma interna fintante che non cominceranno a preoccuparsi più della concorrenza tra marche rivali di fiocchi d’avena o di sigarette che non delle capacità dei loro uomini politici ‘.

Espresso in termini rozzi ma efficaci, questo era il punto di vista corrente in America sulle conseguenze sociali e politiche della rivoluzione dei consumi. La modernizzazione portava ad una maggiore prosperità materiale, a un interesse sempre più esclusivo per i prodotti di consumo e ad un più spiccato individualismo, diminuendo di conseguenza l’interesse per la politica ed escludendo la possibilità di un’azione collettiva contro l’ordine esistente. Quanta strada aveva fatto l’Italia in questa direzionerei 1963?

Non vi è alcun dubbio […], che la dinamica sociale del «miracolo economico» contribuì ad accentuare l’atomizzazione della società civile. Il ruolo del singolo nucleo familiare divenne più importante di prima; le nuove strutture urbane aiutarono a isolare le famiglie, più ristrette di numero, in piccoli e confortevoli appartamenti, ma offrivano pochi spazi per la vita comunitaria; le donne divennero l’obiettivo principale del nuovo consumismo, e l’enfatizzazione della loro dimensione casalinga ne accentuò l’isolamento; automobile e televisione incoraggiarono ulteriormente un uso del tempo libero prevalentemente privatizzato e familiare. Così il «miracolo economico», intrecciando un accresciuto tenore di vita con un accentuato individualismo, sembrò esaudire il sogno americano: si era introdotto in Italia un nuovo modello di integrazione sociale.

Tali sviluppi apparvero tutt’altro che rassicuranti ai custodi dell’ortodossia cattolica e del dogma comunista. Era infatti assai difficile che i cattolici non giudicassero il processo di inurbamento come l’anticamera della secolarizzazione: le loro tradizionali basi nelle campagne stavano per essere distrutte, le vocazioni erano sempre più rare e, peggio ancora, la famiglia cattolica era sottoposta a un pesante attacco. Quest’ultima, in particolare, stava per essere scalzata non già dal «vecchio nemico» – i comunisti atei, materialisti e fautori del libero amore, raffigurati come serpenti nei manifesti elettorali democristiani del 1948 -, bensì dal modello americano di società consumistica, rivelatosi come il cavallo di Troia penetrato nella cittadella dei valori cattolici. Nel 1954, il cardinale di Genova, Siri, mise in guardia su ciò che sarebbe successo: «La folla dei beni posseduti o agognati ha spesso fatto impallidire il bene che si chiama “famiglia”». Mariano Rumor, il nuovo segretario della De, al IX Congresso del partito del 1964, disse che «la famiglia si trova al centro della disgregazione delle strutture tradizionali». Le Acli erano spaventate perché «sulla famiglia si concentra il peso di una pressione pubblicitaria martellante ed insistente, che cerca di trasformarla in una appendice della catena di distribuzione dei prodotti industriali».

I comunisti non erano certo più contenti. Le nuove generazioni avevano poca voglia di dilettarsi con i passatempi collettivi tradizionali o di partecipare alle attività delle Case del Popolo. Nei primi anni ’60 diminuì drasticamente la partecipazione alle diverse organizzazioni del partito, si diradò la presenza   alle assemblee di sezione, l’Udi iniziò un rapido declino. La colpa delle nuove tendenze isolazioniste veniva attribuita soprattutto alla televisione e al consumismo. I valori del «miracolo» venivano esplicitamente denunciati: Lascia o raddoppia? era giudicato «un gioco crudele… lontanissimo dalla vita della gente, dal gusto e dall’intelligenza degli italiani». Tullio Seppilli, in un discorso preoccupato fatto al convegno comunista del 1964 su famiglia e società, esortò il partito a trovare la forza morale per combattere i nuovi insidiosi valori del neocapitalismo.

Fu Pasolini, in un momento successivo, ad offrire l’immagine più poetica di un’Italia che stava cambiando in peggio, un’Italia dove i vecchi valori, i dialetti e le tradizioni stavano per essere distrutti per sempre.

Nei primi anni ’60 – scrisse Pasolini – a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano pili….

 

PAUL GINSBORG

Da “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi” – Einaudi

Foto: Rete

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