Giacobini e sanfedisti fra tradizione e modernità.

Resta ancora ricorrente – nonostante recenti letture critiche dei fatti del 1799 e alcune interessanti, anche quando non condivisibili, rivisitazioni del fenomeno della Vandea – la sovrapposizione tra movimento giacobino, rivoluzione, modernità e quella tra sanfedismo, conservazione, arcaicità. Si tratta di una lettura portata avanti nel periodo risorgimentale, post-unitario e positivista, spesso in opposizione all’interpretazione corrente affermatasi in periodo borbonico.

Di recente, con somma sorpresa, ho avuto modo di constatare, nel corso di alcuni incontri preliminari svoltisi a Cosenza per organizzare una manifestazione sul ’99, come venga ancora oggi da taluni praticata, quasi richiesta, una sorta di iscrizione o di adesione al “partito giacobino” o al “partito sanfedista”. Va sottolineata, pertanto, l’impostazione aperta e problematica, fin nel titolo, come quella data dalla Deputazione di Storia Patria a questo convegno di studi. E quanto mai opportuno partire dai fatti del ’99 per affrontare in termini non canonici una questione sempre attuale e sempre irrisolta in Calabria: quella del rapporto fra tradizione e modernità, che è stato storicamente, forse a partire da quel periodo, un fattore di scontri anziché di confronto e di incontro. Appare quanto mai utile ed urgente abbandonare rigidi schematismi, desuete impostazioni e uscire dalla tentazione di volere separare e distinguere in maniera netta il bene dal male, l’antico dal nuovo.

Non bisogna, per fortuna, partire da zero. Alcuni importanti intellettuali della nostra regione, spesso ignorati o sottovalutati, si sono posti nel passato, in maniera nobile e senza pregiudizio, il problema di una “conciliazione” e di una posizione “mediana” tra le due “parti”, fornendo un contributo essenziale e originale per leggere le contraddizioni della storia e delle culture calabresi, lontano dalla sterile e retorica contrapposizione fra tradizione e modernità.

Una valutazione di tipo non manicheo, particolarmente attenta alle ragioni delle due “nazioni” (per dirla con Vincenzo Cuoco), troviamo proprio in un breve scritto di Pasquale Rossi, I martiri cosentini del 1799 (1899), in cui lo studioso positivista cosentino si presenta come un erede dell’illuminismo e dei giacobini calabresi. Nel centenario dei drammatici eventi Rossi tiene, su incarico del Municipio di Cosenza, un discorso per commemorare i “martiri cosentini del 1799”, dove ricorda, tra l’atro, come il movimento giacobino fosse penetrato nella città con “lo strumento vecchio della riunione accademica, che fra noi avea delle tradizioni gloriose” (ibid.: 9). Le accademie, nonostante la loro tradizione si fosse indebolita, nella seconda metà del Settecento vivevano sotto nomi diversi e facilitavano la penetrazione e la diffusione delle nuove idee economiche, filosofiche e scientifiche (Genovesi, Galiani, Tanucci, Filangeri, Vico). Per la diffusione delle idee di autori come Condorcet e Diderot, Voltaire e Rousseau e del pensiero giacobino un ruolo importante avevano svolto riviste e logge massoniche (ibid.: 9-11).

L’eco della rivoluzione francese e delle dottrine che l’avevano ispirata si diffondeva con una certa facilità in un contesto culturale che aveva dato, secondo Rossi, un contributo fondamentale al rinnovamento delle scienze fisiche e naturali e delle concezioni filosofiche, morali e politiche. Lo studioso ricorda in particolare come il metodo scientifico moderno fosse sorto proprio “quaggiù” con le concezioni antiaristoteliche di Telesio e come, ancora prima che sorgesse il concetto dell’osservazione positiva con Galileo, altri due ingegni meridionali, Campanella e Bruno, sulle orme del pensiero di Telesio, avevano elaborato concezioni originali sulla “infinità della materia e delle forme nelle quali si tramuta” (ibid.: 12). Le stesse idee politiche di Montesquieu e la stessa ammirazione per la costituzione inglese avevano “nell’animo nostro, profonde radici nei ricordi gloriosi dei liberi comuni dell’Italia settentrionale e meridionale” (ibid).

Anche la lotta e la politica antifeudale ed antiecclesiastica del Tanucci e di Carlo III avevano una loro vitalità, né si era spenta l’eco delle concezioni di Vico. E il rinnovamento dell’economia pratica e della scienza della finanza (proposto invano da Necker e Turgot a Luigi XVI) non era nuovo all'”animo nostro”, sia perché il “primo libro di economia politica era stato scritto dal cosentino Antonio Serra”, sia per gli insegnamenti di Genovesi e Galiani nelle cattedre universitarie di Napoli (ibid.: 13).

Volontari della Santa Fede

“Lo stesso riso cinico di Voltaire e la ribellione al domma erano stati iniziati fra noi, ora in forma filosofica con la schiera dei martiri scienziati che va da Bruno al Vanini; ora con i riformatori religiosi che vanno da Arnaldo da Brescia, a S. Francesco d’Assisi, a fra Dulcino; ora con il riso amabilmente scettico del Boccaccio e con l’estetismo paganeggiante di Leone X e del 400” (ibid.: 13). E “persino lo stato di natura di Rousseau avea dei lontani riscontri nella città del sole di Campanella; persino la rievocazione classica di Roma, che fu come un trucco morale della rivoluzione francese, non ci era sconosciuta” (ibid.).

La tradizione culturale calabrese e meridionale aveva partecipato in altri termini, in maniera decisiva e originale, alla nascita del pensiero moderno e questo spiega perché le élite intellettuali cosentine accolgano con favore le dottrine degli illuministi: esse riscontrano molte “rassomiglianze” e “affinità” tra le idee che arrivano da fuori e “lo stato di coscienza e di coltura propria” (ibid.). La diffusione dell’illuminismo a Cosenza si spiega anche con un’altra circostanza storica e culturale: “Cosenza, dopo Napoli, era il maggior centro intellettuale; per tradizione e per coltura, del mezzogiorno dell’Italia continentale, onde in essa le idee dell’enciclopedia doveano maggiormente accogliersi, metter radici, diventare forze vive ed operanti, e fruttificare” (ibid.: 13-14). Vale la pena segnalare come Rossi sembra anticipare alcune posizioni di Corrado Alvaro che circa trent’anni dopo, nel 1931, si sarebbe preoccupato, citando Gioacchino da Fiore, Barlaam, Leonzio Pilato, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella, Mattia Preti, di “ricercare i Calabresi che ebbero diritto di cittadinanza nella civiltà centro italiana che fu in definitiva la civiltà nazionale”). Nei più significativi intellettuali della regione il riferimento, talora orgoglioso, a una tradizione culturale locale, sia “alta” sia “popolare” (da non intendere in maniera separata, ma nei molteplici possibili rapporti), non si traduce mai in angusta rivendicazione localistica, non ha mai lo scopo di erigere distanze o inventare separatezze, ma è sempre teso a segnalare collegamenti, influenze, dialoghi tra quella tradizione e una civiltà più vasta, meridionale, “nazionale” o europea.

La preoccupazione degli intellettuali più innovatori, anche quando sembrano impegnati nella ricerca di un primato, è quella di segnalare i contributi dati dai calabresi alla civiltà nazionale e parallelamente le “influenze” esercitate da questa nella regione. Segnalata la “modernità” della tradizione intellettuale calabrese e meridionale e individuata in fattori di tipo culturale e ideale le ragioni della diffusione delle idee giacobine in Calabria, Rossi ricorda, con grande puntualità, i limiti, le difficoltà, le contraddizioni del giacobinismo calabrese che doveva misurarsi con una realtà sociale profondamente diversa da quella francese. In una terra in cui permanevano forti e antichi contrasti tra feudo e potere regio e dove la nuova classe borghese era pressoché inesistente, fu la nobiltà a diventare giacobina e rivoluzionaria. Mentre in Francia le idee giacobine erano il prodotto ideale d’una classe nuova, la borghesia, e d’un nuovo fattore economico, il capitalismo, “da noi, dove l’ambiente era rimasto feudale e la borghesia non era sorta ed il capitalismo mancava; dove, per un arresto di coltura e di progresso, l’ambiente era poco differente da quello che è adesso; le nuove idee erano importate, erano come piante esotiche e come fiori di serra, che malamente vegetano” (ibid.: 15).

Fabrizio Ruffo

Secondo Rossi – che, con un’impostazione e una terminologia proprie dell’antropologia positivista, riprende alcune valutazioni di Vincenzo Cuoco – il pensiero giacobino resta in Calabria un fenomeno elitario e marginale: “un sogno radioso di classici e di utopisti, di sognatori e d’intellettuali, viventi lontani dalla realtà, della quale erano interpreti veri le plebi cittadine e campagnole, che rimasero misoneiste, conservatrici, feudali, combattenti per la religione e per il re in apparenza, ma, nel fondo, per la difesa di sé, delle proprie terre, dei propri diritti dinanzi alle truppe francesi, che erano piovute quaggiù, ed ai repubblicani nostrani, che se n’erano fatti gli alleati” (ibid.: 16). Rossi sottolinea con forza come le plebi vivessero in uno stato di grave miseria intellettuale e fisica: la stessa abolizione della feudalità vedeva il dissolversi di quei diritti di “università e di comunismo agrario” che avevano costituito antidoto alla “miseria infinita”. Vedendo calpestati i loro interessi da “dottrine audaci” venute da fuori, le plebi, in un momento in cui malattie epidemiche e sventure aggravavano la loro situazione, “sentivano insorgere tutta la loro psiche, tutte le loro credenze, tutte sé stesse” (ibid.: 16-17).

L’arrivo delle truppe francesi nel Regno di Napoli polarizza in modo differente gli animi degli intellettuali e quelli dei ceti popolari: gli uni si mostrano fiduciosi nel futuro e nei principi gloriosi della rivoluzione, gli altri rievocano il passato, in nome di Dio e del diritto divino, e oppongono una resistenza disperata e feroce all’oppressione straniera. Il profondo distacco tra una schiera ristretta di pensatori, d’intellettuali e di utopisti e una folla “misoneista ed ignorante” si configura come scontro tra diverse concezioni del mondo. Un contrasto tra vecchio e nuovo, del resto, si era già manifestato a seguito del terremoto del 1783: da una parte l’ignoranza del clero che terrorizzava le plebi col ricordo del tremendo terremoto, dall’altro il “fine spirito d’investigazione scientifica del Salfi” che riconduceva il flagello ad un fenomeno cosmico (ibid.: 19).

In uno scritto in cui rievoca con toni commossi e con spirito di profonda partecipazione, intellettuale ed umana, il sacrificio dei martiri cosentini, trucidati in Calabria e a Napoli, Rossi riconosce le ragioni concrete, sociali, psicologiche, culturali delle plebi. Egli riconduce lo scontro tra diverse concezioni del mondo ad una medesima vicenda storica, a due aspetti di un analogo “carattere” e “temperamento”. E consegna così ad una medesima storia sociale, economica, civile le due parti che si sono trovate su fronti contrapposti. Gli uni e gli altri, giacobini e sanfedisti, élite intellettuali e plebi mostrano, infatti, “una intima virtù nascosta, una similarità che si fa sentire essere due rami d’un medesimo tronco” (ibid.: 17-18); sono frutti diversi di una “medesima pianta” (ibid.: 8). Rossi coglie le contraddizioni, i contrasti, le “doppiezze” di un’ “unica vicenda”: giacobini e sanfedisti scrivono in maniera diversa una “pagina psicologica” di una medesima storia. Egli individua non soltanto ciò che separa, ma anche ciò che accomuna i protagonisti di un drammatico evento. E così celebra gli eroi e i martiri giacobini, che la reazione sanfedista pensava di aver relegato nell’oblio, ma riconosce che martiri ed eroi sono stati anche quanti si sono trovati sul fronte opposto.

“Eroi, sì, coloro che caddero e per la civiltà e per la repubblica; eroi della santa causa, sacerdoti e militi ad un tempo, passanti di mezzo alla visione di fuoco, col capo avvolto nelle nubi e gli occhi fissi nell’ideale; ma non meno grandi coloro che – in buona fede – credettero militare per il trono e per l’altare; che non compresero del tempo loro la voce lontana e la meta nascosta; che credettero difendere un principio sacro: la religione, i lari domestici, – da gente piovuta da lontano e da invasori. Eroi ignoranti, ma non meno forti e non meno grandi, figli genuini e gli uni e gli altri del tempo loro e sopra di essi – a un secolo di distanza – piovano pietosi l’ammirazione ed il perdono!” (ibid.: 7).

Se ai sanfedisti Rossi riconosce lo spessore eroico e tragico di coloro che difendono una causa considerata giusta, ai giacobini assegna una sorta di religiosità, quella religiosità che era stata liquidata, sia in epoca illuminista che nel periodo positivista, come segno di arcaicità e di superstizione. Ribaltando precedenti interpretazioni, Rossi conferisce una valenza di tipo religioso anche al pensiero e all’azione dei giacobini. E infatti definisce i giacobini “eroi della santa causa”, “sacerdoti e militi” (ibid.: 7), “martiri e confessori di un’idea” (ibid.: 24) e parla della “religiosità solenne”, del “turbamento sacro”, che, lui erede dei giacobini, avverte nel momento in cui commemora i martiri cosentini. Nello stesso tempo si sente vicino ai bisogni e alle ragioni della plebe sanfedista e alla causa della plebe del suo tempo.

“… noi, eredi intellettuali dei Giacobini del ’99, sentiamo che e Giacobini e Sanfedisti sono germogli della razza nostra, che in quella occasione mostrò tutto il pregio e tutto il difetto, donde essa era capace… Dalle intime latebre della razza, due energie ugualmente forti e poderose si erano sprigionate e si erano dirette per opposte e cozzanti vie; ma, non per questo, sentiamo meno quanto di noi sia vissuto in loro e, traverso le vicende fortunose di quel secolo di forti sempre, di odii feroci e d’indomiti ardimenti, quanto di cognizione spirituale sia stata fra loro e fra loro e noi. E però non meno vivo scenda sui vinti e sui vincitori, sui martiri e sui carnefici, il perdono solenne della storia e l’augurio delle lotte libere e miti della pace e del lavoro fra gli epigoni!” (ibid:. 7-8).

Senza confondere le ragioni delle due parti contrapposte – come di recente fanno alcuni politologi con riferimento ad altri episodi della storia nazionale -, ma riconoscendole nella loro complessità, senza nascondere le diversità, Rossi avvicina e accomuna quanti si sono ferocemente combattuti e invita al perdono e alla riconciliazione gli eredi dei protagonisti di quei tragici avvenimenti.[…] (Continua)

 

VITO TETI

Da “Rivoluzione e antirivoluzione in Calabria nel 1799” – Atti del IX Congresso storico calabrese – Laruffa Editore

Foto: Rete

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