L’ideale religioso dei monaci italo-greci

Madonna in trono – Monreale

Τον χουν υποταξαι τω πνευματι [sottomesso allo spirito]»: è questo l’ideale di vita religiosa cui tendono, non diversamente dagli altri monaci bizantini, i monaci dei nostri monasteri. Solo dominando il corpo l’anima avrebbe potuto tendere alla comunione con Dio; ed il dominio dell’anima sul corpo doveva essere inteso in senso assoluto: non solo i desideri di beni e di piaceri terreni dovevano essere banditi nel modo più completo, ma anche la soddisfazione delle necessità fisiche più naturali, il bere, il mangiare, il dormire, doveva essere contenuta nei limiti più ristretti, nella misura necessaria per sopravvivere. Quando il monaco era giunto al punto che nessun desiderio, nessuna tentazione poteva più turbare la sua anima, allora egli poteva essere felice, così come affermava Giovanni Climaco: «Libero dalle passioni (απαθης) è effettivamente, ed è riconosciuto tale, colui che ha reso la sua carne incorruttibile, ed ha sollevato la sua mente oltre la natura creata, e le ha assoggettato tutti i sensi, ed ha portato al cospetto di Dio la sua anima, sempre tendente a lui oltre tutte le sue forze. Alcuni affermano che l’απαθεια sia la resurrezione dell’anima prima di quella del corpo, altri piena conoscenza di Dio, simile a quella degli angeli».

Ad una simile completa liberazione dalle passioni era giunto Elia lo Speleota. Egli era stato invitato da un ammiratore della sua virtù ad andare a casa sua, e, mentre pranzavano, la moglie di quest’ultimo, infiammatasi di Elia, gli toccò il piede con un piede; ed il santo, quando narrava questo episodio ai suoi discepoli, così continuava: «II mio corpo non sentì alcun movimento carnale, né fui mosso nella carne, pensando al fuoco eterno. Ma, come un pezzo di legno è accostato ad un altro pezzo di legno con un contatto insensibile, così rimasi anch’io…».

Per questo i nostri santi ci appaiono soprattutto come maestri di ascesi. Ecco come Cristoforo trascorreva la sua vita nella chiesa di S. Michele Arcangelo a Ctisma: «… mangiava ogni tre o quattro giorni. Talora trascorreva una intera settimana senza mangiare, e viveva di legumi inumiditi e di ortaggi crudi, e di frutta ed erbe raccolte nei boschi. A grandi intervalli di tempo si nutriva di pochissimo pane e mangiava legumi cotti ed ortaggi conditi con sale e senza olio»; e suo figlio Saba non era da meno di lui: «… gli bastavano un solo vestito per sopportare i diversi mutamenti di temperatura, sì da essere bruciato dai raggi del sole nell’estate e da essere congelato nell’inverno dal freddo violento; e quando quell’uomo straordinario camminava e si metteva a lavorare portava nudi i suoi piedi giovani ed apostolici, così come il suo venerando e sacro capo… Nelle veglie spesso seguiva questa regola: inginocchiato cantava dalla sera gli inni di David, distese le braccia in croce e meditando sulle loro bellezze; quando aveva terminato tutti i salmi, unitosi agli altri fratelli, prolungava il canto degli inni sino al mattino. Poi prendeva tanto sonno quanto fosse necessario per rifocillare il corpo…». La quaresima comportava nuove privazioni: «Quando giungeva il tempo dei santissimi digiuni, quel sant’uomo restava digiuno durante la prima settimana di quaresima sino al sabato, ed allora ristorava il corpo indebolito con un po’ di pane e dell’acqua. Durante le settimane seguenti, ogni tre giorni prendeva il pane che si distribuisce dopo la partecipazione ai misteri; e quell’uomo prudente lo prendeva affinché potesse superare le fatiche della penitenza… Quando veniva la ricorrenza della santa Resurrezione del Salvatore solo per sette giorni mangiava con i fratelli e godeva di tutto con semplicità di cuore, e rallegratosi nello spirito riprendeva di nuovo l’antica regola di vita».

E S. Vitale da Castronuovo «… domò il suo corpo scoperto col freddo e col caldo, nutrendosi per dodici anni di erbe e di acqua».

Ma colui che superò tutti fu indubbiamente S. Nilo. Il suo βιος è una lunga enumerazione dei nuovi mezzi che Nilo trovava per domare il suo corpo. Ecco, per esempio, come trascorreva i suoi giorni nella chiesa di S. Michele Arcangelo; mangiava ogni due o tre giorni, ed a volte anche ogni cinque giorni, astenendosi completamente dal vino e dai cibi cotti. Oltre il digiuno, altri mezzi per domare la carne erano per lui le veglie, la salmodia e le continue genuflessioni. Egli divideva la giornata in questo modo: dall’alba sino alla terza ora copiava testi sacri; dalla terza ora alla sesta andava dinanzi ad una immagine della Crocifissione, ove recitava i Salmi e faceva mille genuflessioni; da sesta a nona sedeva leggendo gli scritti dei Santi Padri e dei Dottori della Chiesa. Dopo aver cantato l’inno del Vespro usciva un po’ a passeggiare, e tornato prendeva il suo modico cibo. Durante la Quaresima mangiava solo il pane benedetto e passava la maggior parte di quei giorni senza bere. Dormiva solo un’ora, e trascorreva il resto della notte cantando i Salmi e facendo cinquecento genuflessioni. Non aveva letto né sedia, ma dormiva sulla nuda terra; come vestito aveva un sacco di pelle di capra che cambiava dopo un anno con un altro simile. La sua cintura era una corda che scioglieva solo quando doveva mutare l’abito, e che naturalmente perciò era sempre piena di insetti.

A volte, in questa sua concezione così rigida della vita monastica, Nilo giungeva ad essere spietato anche verso gli altri. Stefano, uno dei discepoli di Nilo, era un uomo semplice, nonché un gran dormiglione, tanto che spesso, chiedendogli Nilo a cosa pensasse, egli rispondeva di non pensare a nulla; ma di avere solo un gran desiderio di dormire. Nilo quindi gli costruì uno sgabello con un solo piede, e solo su quello Stefano poteva sedere; e per mantenersi in equilibrio doveva restare necessariamente sveglio. Ma spesso, malgrado tutto, Stefano si addormentava, ed immediatamente cadeva, rompendosi ora un braccio, ora il viso.

Gli asceti bizantini sapevano benissimo che queste pratiche ascetiche non erano fine a se stesse, ma solo un mezzo; come diceva ad esempio Diadoco di Fotice, un autore che Nilo conosceva bene per averne ricopiato le opere, « il digiuno ha in se stesso una certa gloria, ma non dinanzi a Dio: esso è infatti un mezzo, che quasi conferma a temperanza coloro che vogliono ciò; non bisogna dunque che noi che combattiamo per la religione cristiana ce ne gloriamo, ma dobbiamo porre il fine del nostro proposito nella fede in Dio». Eppure a volte accadeva una vera e propria trasposizione di valori: si cercava la mortificazione del corpo per se stessa, e, quasi come in una gara, vi era chi cercava di trovare forme di penitenza sempre più rigide e di non essere inferiore a nessuno in questo campo -.

La lettura delle pratiche ascetiche degli antichi padri spingeva Nilo da Rossano a provare se il suo corpo fosse capace di resistere a tali mortificazioni; ed un esempio caratteristico di questa specie di ricerca del primato nelle pratiche ascetiche ci è dato da un episodio della vita di S. Vitale da Castronuovo. La fama della virtù di Vitale era giunta sino a Luca di Armento, il quale, volendo provare se quanto si diceva a proposito di Vitale corrispondesse a verità, si mise in cammino e si recò da lui. Dopo aver discusso di argomenti religiosi, quando venne l’ora del pranzo Vitale ordinò al suo discepolo di imbandire un po’ di pane e del grano bollito. Quindi fece portare dall’orto delle cipolle, di cui egli era solito cibarsi, e, tagliatane una in quattro ne offrì una parte a Luca. Questi però, non potendone sopportare il cattivo odore, pregò il suo ospite di allontanare quel cibo caprino, che dava la morte a chi lo mangiava. Quando vide che Vitale, così come era sua abitudine, aveva cominciato a gustare di quel cibo, cominciò a mangiarne anche lui, ma al primo boccone cadde riverso. Le preghiere di Vitale lo fecero subito ritornare in sé, ed una volta rialzatosi Luca si gettò ai piedi dell’altro, di cui aveva riconosciuto i grandi meriti.

Tra tutte le virtù il grado più alto era tenuto dalla solitudine. Come dice il biografo di S. Nilo, parlando del primo periodo della vita monastica trascorsa dal suo eroe al Mercurion, costui progrediva, salendo continuamente sempre più alto nella scala delle virtù, con cui l’uomo si innalza sino a Dio, finché non giunse ad amare la solitudine, la madre di tutte le virtù. È vero che la vita cenobitica presentava il vantaggio di poter esercitare la virtù dell’obbedienza, che lo stesso Nilo seppe praticare in misura altissima, come mostra un episodio avvenuto al Mercurion. La fama della rigidità della regola seguita da Nilo si era diffusa ovunque, e così un igumeno, Giovanni, per metterlo alla prova, lo invitò nel suo monastero e gli diede da bere una coppa di vino, che Nilo, dopo aver chiesta, ed ottenuta, la benedizione di Giovanni, bevve sino in fondo, anteponendo a tutte le altre cose la rinuncia alla propria volontà, indipendentemente dalla considerazione se ciò che gli veniva ordinato fosse consono, o meno, alla sua ragione. Ma, malgrado ciò, l’aspirazione alla vita solitaria, in Nilo come negli altri, era sempre presente: soli, lontani dagli uomini, non vi era nulla che dall’esterno potesse venire a turbare il loro animo e che allontanasse il loro sguardo da Dio. Per la solitudine essi rinunciavano a tutto, talvolta anche alla possibilità di giovare agli altri con il loro esempio ed il loro consiglio. Per cercare la solitudine Elia di Castrogiovanni si recò nei monti Mesobiani, abbandonando il monastero di Saline, ove molta gente si recava a parlargli. E Saba «pose dunque nel detto monastero come economo un uomo di nome Macario, espertissimo ed ornato di eloquenza; affidatagli quindi la cura dei monaci, per cinque giorni della settimana si dava alla solitudine, senza prendere alcun alimento. Il sabato, uscendo dalla sua solitudine, vegliava con i fratelli sino alla divina liturgia, e dopo aver partecipato ai santi misteri di Cristo ed aver mangiato con i fratelli, tornava alla sua diletta solitudine».

Quando questi monaci si trasferirono in paese latino, in un ambiente estraneo, ma in cui la civiltà bizantina era conosciuta, la loro concezione della vita religiosa rimase immutata, o subì l’influenza del diverso ambiente in cui essi vennero a trovarsi? Questa influenza indubbiamente vi fu, ma cominciò a manifestarsi dopo un certo tempo, mentre le prime generazioni dei monaci bizantini continuarono, in Puglia, in Campania o nel Lazio, a vivere secondo la loro tradizione. La liturgia continuò ad essere bizantina, come mostrano i testi liturgici del monastero barese della Vergine, S. Giovanni Battista e S. Giovanni Evangelista, e di quelli salernitani di S. Nicola di Gallucanta e di S. Giovanni di Vietri; l’aspetto esterno conservò quelle caratteristiche che distinguevano i monaci greci dai latini, innanzi tutto la barba, che, come Nilo fece osservare ad Adalberto di Praga, indicava chiaramente in lui un monaco greco, quindi ospite nei possessi di Montecassino, e soprattutto rimasero le loro pratiche ascetiche. Quando Saba si stabili a Salerno, si ritirò in uno σπηλαιον οχυρωμενον και δυσβατον τοις πολλοις [una grotta fortificata e inaccessibile a molti], e quando Vitale da Castronuovo morì, tra le altre raccomandazioni che rivolse ai suoi monaci furono queste: «…insistite ieiuniis, abstinentiis, lacrymis, genuflexionibus, lectionibus, psalmodiis, orationibus… ».

SILVANO BORSARI

Da “Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne”  – Napoli

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