Un libro per amico – CRISTIANI IN ARMI

Distanti e arcaiche ci sembrano oggi le parole pronunciate dal cardinale belga Désiré Mercier nel tragico Natale dell’anno 1914 per incoraggiare i compatrioti oppressi dai tedeschi invasori. Mercier affermava che l’occupazione dei nemici era una profanazione sacrilega; pertanto, difendere il territorio nazionale fino al sacrificio estremo non era solo un dovere, ma rappresentava un atto meritorio del tutto analogo a quello dei primi martiri cristiani: «non c’è dubbio che Cristo donerà la corona della salvezza eterna a chi è morto per la patria e … cancellerà i peccati di una intera vita per quell’atto d’amore supremo», scriveva il cardinale (cit. da Kantorowicz).

Sono parole che oggi appaiono gravissime, e in verità tali sembrarono anche allora ad alcuni colleghi di Mercier, come il cardinale francese Louis Billot. Ma quelle parole ne riecheggiavano altre, pronunciate più di un millennio prima, all’inizio del cristianesimo, e ripetute purtroppo molte volte nel corso dei secoli. L’imperatore Foca, nel VII secolo, aveva chiesto che i soldati caduti in battaglia fossero considerati martiri. Due secoli dopo (prima ancora delle crociate, dunque) papa Leone IV dichiarò che «ai soldati che morivano combattendo valorosamente per la Chiesa contro i saraceni sarà spalancato il regno dei Cieli».

È vero che né Foca né Mercier raccolsero consensi ampi e decisivi. Ma quelle del cardinale belga all’inizio del XX secolo non sono le ultime parole che un cristiano — un cristiano investito di un’altissima carica — ha pronunciato a favore della santità della morte in guerra o semplicemente della guerra. Parole simili sono risuonate più vicine a noi nel tempo, anche se sempre meno frequenti.

Qualche esempio. Il 21 maggio 1948 Pio XII dichiarava che «un popolo minacciato se vuol pensare e agire cristianamente non può rimanere in una indifferenza passiva e a maggior ragione la solidarietà della famiglia dei popoli impedisce agli altri di comportarsi da semplici spettatori chiusi in un atteggiamento di impassibile neutralità». Dieci anni dopo lo stesso pontefice ribadiva che «la Chiesa è lontana dall’ammettere che la guerra sia sempre condannabile». Sono certamente parole che vanno valutate nel contesto drammatico della Guerra fredda.

Ma ancora: la guerra — dichiarata «assurda e inaccettabile» dal pontefice Paolo VI (e ripetutamente: nel ’67, nel ’70, nel ’77 e nell’82) — appare descritta, nel Catechismo per gli adulti composto nel 1991 dall’episcopato francese, come «preferibile alla perdita dell’onore: … la guerra è un dramma superiore». L’onore — l’onore del soldato di Cristo – è un concetto fondamentale nel linguaggio del martirio cristiano.

Il passato, come vedremo in questo libro, è impressionante. Oggi l’invito alla pace appare condiviso dalla maggior parte dei cristiani: un invito autorevole, diffuso e spesso appassionato. È questa una conquista definitiva? «Mai più guerra», come dichiarava nel 1965 papa Paolo VI alle Nazioni Unite? Resta qualche dubbio.

Sullo sfondo stava e sta in agguato, nel pensiero cristiano, una convinzione dolorosa, che induce molti credenti a una visione pessimistica della vita e del destino terreno, dovuta alla «miseria» fisica e intellettuale dell’uomo a seguito della Caduta. Anche don Luigi Sturzo, nel secolo scorso, ha segnalato e deprecato le conseguenze di questa visione pessimistica della natura umana.

Nel pensiero dei Padri della Chiesa, il peccato originale ha depotenziato la natura umana, così vivida e capace in Adamo: non solo l’intelletto, ormai incapace di conoscere intuitivamente e costretto alla faticosa e incerta partenza dai dati sensibili, ma soprattutto la volontà, non più sicura davanti alla scelta del bene. Non ultimo per importanza in una prospettiva politica, anche il corpo umano è indebolito dopo la cacciata dal paradiso terrestre. Il corpo si ammala, si stanca, invecchia, e sempre più faticosamente deve affrontare il bisogno. Durante la vita su questa terra, i figli di Adamo sono esposti alla necessità e alla fatica di procurarsi il cibo e il riparo per il sonno, sono tormentati dal desiderio di impadronirsi dei beni della terra per avere la meglio sui propri simili, sono spinti alla competizione e alla sopraffazione per assicurare a sé e alla prole i mezzi della sopravvivenza. Agostino la chiama libido dominandi. Dopo la Caduta l’uomo si vede e si sente costretto alla violenza. Si rassegna alla violenza.

È possibile sfuggire a questo impulso aggressivo imposto dal bisogno? I cristiani hanno pensato che fosse possibile? Per ora la domanda non può che rimanere tale.

Poco più di ottant’anni fa si poteva ancora autorevolmente scrivere che «la guerra è inevitabile, è senza dubbio una delle conseguenze più disastrose del peccato originale sia per le miserie che genera sia per la perdita delle anime che si presentano impreparate davanti al Giudice supremo ancora ebbre per la violenza che le ha travolte, piene di ira e odio … La terra che prima del peccato di Adamo era un paradiso di delizie è divenuta un campo di battaglie». La guerra, dunque, con ogni evidenza sofferenza e trasgressione del comandamento divino, era tuttavia considerata inevitabile perché teologicamente iscritta digito Dei nella storia dell’uomo. Così si poteva leggere nel Dictionnaire de théologie catholique (edito nel 1914, l’articolo Guerre è stato ripubblicato nel 1947 senza variazioni).

Non c’è dubbio che per moltissimi secoli la tristezza che colora il mito e la convinzione della Caduta abbia dominato le scelte imposte dalla convivenza umana e quindi condotto ad ammettere la «necessità della guerra»: per il cristiano la verità sta altrove, nell’altra vita, quella immortale, e ogni sforzo deve essere indirizzato alla meta ultraterrena. La preminenza di questo ideale ha permesso troppe volte che fosse considerato come inevitabile il conflitto fra gli uomini, accettando così la guerra come un male minore rispetto a una violenza generalizzata e senza regole, quasi dimenticando l’invito appassionato di Cristo alla pace fraterna.

È vero però che, fin dai primi secoli, molti cristiani si interessarono con slancio anche ai modi di convivenza e alle speranze della vita su questa terra, mirando a una imperfetta ma positiva realizzazione della giustizia divina attraverso l’eguaglianza. Quei viandanti (viatores) nel mondo ascoltavano le forti esortazioni all’amore fraterno contenute nel Vangelo e guardavano al modello di comunità giusta, attenta ai bisogni di ciascuno e quindi pacifica, rappresentato negli Atti degli Apostoli. La natura incontaminata anteriore al peccato originale continuava a rappresentare per loro un modello e un antefatto da restaurare per quanto possibile: «Tutti quelli che avevano creduto stavano insieme e avevano tutto in comune. Vendevano le proprietà e i beni e distribuivano il guadagno fra tutti secondo il bisogno di ognuno … Erano un cuor solo e un’anima sola né alcuno diceva che qualcosa gli apparteneva ma tutto era in comune … Non c’erano bisognosi fra loro» (Atti degli Apostoli 4, 32).

Mirando al modello delle prime comunità cristiane, sceglieranno questa via di pace e povertà i poveri di Enrico da Losanna, gli studenti di Arnaldo da Brescia, i seguaci di Dolcino da Novara, i «poveri preti» lollardi e molti altri che verranno considerati eretici dalla Chiesa istituzionale e come tali condannati.

La Caduta aveva generato innegabilmente la sequenza bisogno-competizione-guerra: da sempre nel pensiero dei cristiani la scelta della «povertà fraterna» poteva infrangere la catena del bisogno e si legava perciò all’aspirazione alla pace. Nella comunione dei beni e nella povertà, voluta e non subita, era iscritto il progetto di pace fra gli uomini. […]

Questo non è un libro sulla guerra, ma sulle idee che, in un senso o nell’altro, hanno promosso e giustificato la guerra o favorito la pace in campo cristiano

Dalla Premessa

In dettaglio

 Editore ‏ : ‎ Laterza (13 settembre 2007)

Autore ‏ : ‎ MARIATERESA FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI

Copertina flessibile ‏ : ‎ 226 pagine

Prezzo : 8.90 euro

ISBN-10 ‏ : ‎ 8842084107

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