“Povera, bella terra mia, violentata e rovinata”

[…] Ripensando quello che Pasolini ha raccontato e filmato della Calabria e quello che ha scritto delle periferie, delle culture locali, dei saperi tradizionali, dell’omologazione generalizzata.

Il dibattito che ne è seguito offre momenti e motivi di riflessioni, ma anche considerazioni amare. A intervenire sono sempre i soliti tenaci e affezionati noti. E qualcuno scrive sempre le stesse cose. Si parli di Pasolini o di Bocca, qualche intervento, di maniera, per dovere, per esserci, è assicurato. E bisogna essere grati anche ai tanti che intervengono e non stanno muti e silenziosi, non nascondono, come diceva il poeta, la testa come gli struzzi. E bisogna dirti grazie perché ti ostini ad ospitare, accogliere, sollecitare, sperare, proporre un giornalismo libero. La domanda: con i soliti noti, le consuete analisi, le invettive anche forti e coraggiose, dove andrà questa Calabria. Avverto un senso di stanchezza, di deja vu, di parole che vengono ripetute al vento, di bilanciamento delle retoriche pro Calabria o anti Calabria. Avverto l’assenza della politica e delle istituzioni e anche l’indignazione dei giovani. La retorica dell’essere prevale sul fare (un fare eticamente orientato) e tutto resta come prima o addirittura ci riporta al passato. A leggere fatti, commenti, articoli denunce di dieci anni fa hai la dolente sensazione che non cambia mai nulla. Ho la sensazione di avere già pubblicato l’inedito che ti mando o di avere detto le stesse cose in tanti miei altri articoli. Si predica, si inveisce, ci si addolora, ci si autoflagella, ci si colpevolizza, si apre, sempre retoricamente, alla fiammella e alla speranza (così per non passare per pessimisti, negativi e autodistruttivi) e poi di nuovo al nastro di partenza, in attesa della scoperta di un nuovo viaggiatore o di un evento drammatico o criminale da commentare. L’assuefazione prevale. E tutto viene gabbato come normale. Parlo anche del mio sgomento. Sono andato a guardare tra i miei file non pubblicati non inviati al giornale per non alimentare polemiche, per non fare prosperare lo scetticismo, a volte per carità di patria, e mi sono accorto che quanto scrivevo nel 2001, nel 2006 e poi nel 2008 assomiglia terribilmente a quello che scrivo oggi. Non per monotonia. Ma perché nessuno ascolta e tutto resta sempre uguale a séstesso. Ti invio uno scritto mai pubblicato di qualche anno addietro (2008) e sento che al peggio non c’è mai limite. Invidio gli ottimisti e gli speranzosi, io cerco di non nascondere la testa come gli struzzi, di cui parla Pasolini, e anche di parlare senza timore di passare per “anticalabrese” e senza preoccupazione di essere allontanato da un “noi” da cui mi chiamo fuori. E mi chiamo fuori da questi sterili, ripetitivi, inconcludenti dibattiti sulla identità o disidentità dei calabresi. La Calabria dovrebbe essere in grado di raccontarsi e di fare da sola. D’ora in avanti racconterò, come saprò e come potrò, la mia Calabria, la Calabria che mi pare, la sua “normalità”, il suo essere mondo. Tutto il resto mi sembra chiacchiera, favola, mitologia.

A Corrado Alvaro, in fondo, sembrava difficile, spiegare agli altri la sua regione, che la sua padrona di casa berlinese pensava confinante con le Asturie: un luogo mitico e leggendario, parte di una geografia fantastica. In realtà, nessuno, dopo di lui, ha saputo raccontarla meglio. Dopo quasi cento anni non solo risulta difficile raccontarla: è quasi impossibile, forse inutile. Intendo, raccontarla nella sua profondità, nella sua verità e nella sua ombrosità.

La Calabria si nasconde, si camuffa, non appare e quando appare lo fa con il suo volto più angusto, buio, sotterraneo, ambiguo. La Calabria è diventata straniera a sé stessa e i calabresi non sanno più, se mai lo hanno saputo, chi sono.

La fuga è tornata attuale, come ai tempi, di Alvaro, che osservava un esodo senza rancore, garbato, pieno di speranza, mentre oggi chi fugge lo fa con rabbia e con irritazione, senza desiderio di tornare.

A fuggire sono anche molti che non partono, molti rimasti, ormai stranieri in patria, solitari custodi di rovine e di memorie, cavalieri incompresi e inascoltati. La fuga più dolente è quella di chi aveva fatto la scelta di restare e adesso si sente impotente, deluso, si domanda, come Chatwin, “che ci faccio qui”. “Addio, /terra./Salutiamoci,/ è ora”: con questi versi Franco Costabile chiudeva “Il canto dei nuovi emigrati”. Ed oggi quelle parole dolenti e rabbiose di addio potrebbero essere pronunciate da quanti sono rimasti e rimpiangono di non essere fuggiti.

La Calabria non vuole raccontarsi, ritrovarsi, e si consegna agli altri, allo sguardo esterno, amico o ostile. Sempre dipendente. Così è facile trovare alibi alla sua incapacità di elaborare immagini positive, di costruire speranze.

Un abitante di Brescia o di Milano, di Livorno o di Venezia, si alza la mattina, con i suoi problemi, le sue fatiche, il suo quotidiano programma di vita. Il calabrese si alza con un peso in più: quello della memoria che non fa ricordare e dell’identità che guarda all’indietro. Un calabrese che si guarda allo specchio pensa cosa avranno scritto i giornali, cosa sarà successo durante la notte, chi è stato indagato e chi è stato arrestato. L’appartenenza non è una liberazione. Ma un’ossessione. Le origini non sono più una salvezza, ma una prigione.

Il rapporto con gli altri è di soggezione o di rancore. Se un calabrese non trova buone ragioni la mattina per litigare con qualcuno, con un familiare, un suo vicino, un amico, un nemico, comincia a litigare con se stesso. Ha quasi voglia di prendersi a schiaffi, di farsi male.

Non si ama, in fondo, il calabrese: il suo odio, la sua insofferenza, la sua indifferenza per gli altri dicono che non sta bene con sé stesso, è a disagio, insofferente, non si vuole bene. Lacerato. Con sensi di colpa, con un’afflizione patologica e con pensieri distruttivi e autodistruttivi. Incerto. Tra passato che non passa e futuro che non arriva perché non sa immaginarlo, perché non riesce a vivere nel presente. Tra qui e altrove, senza essere mai in nessun posto, davvero.

Non va bene niente, ma la colpa è sempre degli altri.

Non si ama, il calabrese, e tende a sentirsi in conflitto con gli altri, ad esasperare le distanze, a vedere e a inventare nemici, a dire male di chi non conosce, a insinuare, a calunniare, a irridere.

Un giorno, però, decide di amarsi, diventa indulgente con se stesso, si comprende, e allora gli odi antichi diventano amicizie profonde, le grandi inimicizie diventano complicità. Tutto gira e tutto si può dire. Tutto crea disorientamento.

Un famoso giornalista forestiero che ha affondato la lama nelle piaghe delle sventure della sua terra, ne ha ricordato le devastazioni e i gli sperperi. Affiora la sindrome dell’assediato: siamo incompresi, di noi si parla soltanto male, non si vedono le positività della nostra terra.

Un altro giornalista, magari un po’ retore, ci ricorda Scilla e Tropea, parchi e paesaggi incantevoli, ricchezze archeologiche ed artistiche, ed ecco qualcuno con la sindrome del beneficiato: come si osa parlare delle nostre bellezze e non vi accorgete delle mafie, dei politicanti, delle clientele.

Siamo (adopero con difficoltà questo noi) sempre in attesa di quello che dicono gli altri: per applaudire, per polemizzare, per piangere, per riconoscerci o per negarci. Oscilliamo tra autoesaltazione e autodenigrazione. La sindrome dell’assediato o dell’accerchiato; la sindrome dell’incompreso o dell’ignorato; la sindrome dell’esaltato e dell’osannato. Tutte queste sindromi raccontano l’incapacità di costruire un’identità per, con, e la tendenza a riconoscerci contro o all’indietro.

La Calabria è ingovernabile e non solo perché è impresentabile, corrotta, ignorante, collusa la propria classe politica, i propri gruppi dirigenti, quelli che periodicamente arrivano per predicare le magnifiche sorte progressive: è ingovernabile perché non sono governabili le popolazioni. A prevalere è l’anarchia, non quella bella e nobile, che coincide con libertà: l’anarchia che è mancanza di qualsiasi regola. Il calabrese, da quello più in alto a quelli senza responsabilità, non ha amore, rispetto, cura delle regole. L’incuria sovrasta sul paesaggio, sui rapporti, sui legami.

Le regole sono dalle trappole in cui cadono soltanto gli stupidi: raggirare gli ostacoli è pratica quotidiana nelle strade, nei bar, nei supermercati, negli uffici, negli ospedali, nelle scuole, nelle università. Tutti passano avanti e tutti hanno più diritti degli altri. Non la richiesta di diritti, ma l’affanno per ottenere il piacere.

Da decenni ormai, vengano votati ed eletti i più incapaci, i traffichini, gli inetti, gli incompetenti, gli appartenenti alla zona grigia.

La zona grigia? Sarei tentato di dire che non esiste una zona grigia, perché qui tutto è zona nera e perché chi non partecipa, vede, conosce, sa. C’è una “società” nel suo complesso omertosa, collusa, ndranghetosa ed è questo che spiega la forza della ndrangheta e di questa politica. Non è l’inverso.

I lupini amari rendono amari i lupini dolci e la bocca di chi li mastica. Non serve. L’ipocrisia, l’inganno, il furto, il doppio gioco, il trasformismo sono pratiche condivise, titoli preferenziali.

E se qualcuno va contro corrente, ecco il fango, la calunnia, l’arte di insinuare, di dire male di tutto e di tutti. E poi l’arte di scaricare. Uno, due, dieci indagati, avvisati, arrestati del mio gruppo politico, ma cosa volete che ne sappia il capogruppo: c’è una divisione tra scelte politiche e scelte amministrative. Come se vivessimo sulla luna e non sapessimo che non si muove foglia senza che chi amministra sappia, controllo, gestisca tutti. Ci si difende fino all’ultimo, si invoca il corso della giustizia, si dice che bisogna leggere le carte, bisogna capire e quando l’evidenza non può essere negata, allora ci si chiama fuori. Siamo puri e innocenti: cosa potevo sapere io di quello che fanno i miei assessori, i miei consiglieri, i candidati nella mia lista, i miei dirigenti che ho disseminato in tutti gli enti pubblici calabresi perché sono i rappresentanti di un “modello Reggio”. Triste terra quella che sceglie come modello un luogo devastato dal cemento, irriso da paesaggi incompiuti e avvelenati, dove vengono arrestati avvocati, giudici, consiglieri regionali e comunali.

Qualche politico (come si chiamerà?) fa interrogazioni o denuncia: peccato non si accorga che nel partito in cui milita ci sono indagati, inquisiti, furfanti, che non si renda conto che il suo clan è l’espressione di quell’antropologia della frammentazione e della litigiosità che ha distrutto la Calabria.

Continuano i morti di malasanità, gli ospedali sono dei lazzareti, si fugge al Nord. Più si interviene e più guasti si provocano. La logica è la difesa del proprio orticello e più si restringe il terreno più ci si accanisce: mai l’idea che avremmo da guadagnare a metterci assieme, a collaborare, a condividere, ad aprirci, a non chiuderci. E per risolvere il problema della sanità, un politico, con posti di responsabilità nella commissione regionale, s’inventa che bisogna mettere le telecamere negli ospedali, controllare, spaventare, i medici. Non lo sfiora l’idea che cura e prevenzione non hanno nulla a che fare con il condizionamento delle professioni e che un medico che opera senza serenità può fare molto più danni di quello che la sanità già provoca. Il guaio è che non lo dice e non lo pensa lui: è che nessun medico, nessun ordine, lo zittisce, gli spiega l’etica e i problemi della medicina. Compiacenza, silenzi, paure.

Come quelle che troviamo nel cosiddetto universo intellettuale e nel mondo accademico: la libertà di pensiero è un’opzione a giorni alterni, come il garantismo: meglio aspettare, denunciare il “nemico”, schierarsi, attendere che ci vengano finanziati i progetti e, in caso contrario, lamentarci.

La verità è che non sai mai chi hai di fronte, con chi stai parlando davvero, cosa e chi rappresenti. Quale sia il suo vero volto. I magistrati di Reggio stanno, con coraggio, portando avanti operazioni di legalità, stanno colpendo la zona grigia e arrivano (forse) in alto. Bene. Po un giudice da cui saresti andato di corsa, per la sua militanza antindrangheta, proclamata anche nelle occasioni pubbliche, per denunciare qualcosa di cui si è al corrente, viene arrestato per complicità e si dichiara più adatto all’omertà ndranghetista che non alla verità della legge per cui ha giurato.

L’antimafia è, molte volte, di facciata e di maniera, ma anche chi denuncia la retorica dell’antimafia è a sua volta retore e portatore di interessi. Non esistono gruppi liberi, lobby laboriose e aperte: i partiti sono la sommatoria di clan familiari e clientelari; la Chiesa è divisa e lacerata; e così la magistratura. Una guerra di tutti contro tutti: calunnie succedono a a calunnie, fango si mescola a fango. La parola fango, peraltro, è diventata magica sia per negare l’evidenza e nascondere le responsabilità.

Difficile orientarsi, districarsi, capire dove sta il vero in una terra paludosa, ombrosa, sotterranea.

Un giornalista scrive un articolo duro e aspro contro i clan e i gruppi dirigenti: poi qualcuno ti dice che rappresenta un qualche interesse, che dietro di lui c’è qualcuno, un politico, un giudice. Fango o verità? Come orientarsi? Di chi fidarsi?

Quello che, goffamente, ti mette la mano sulla spalla, ti dà la pacca sulla schiena, potrebbe essere quello che ti dà la coltellata o sta per demolirti.

I paesi che se ne andavano, come ricordava Costabile, ormai se ne sono andati. Vuoti, solitari, tristi. E più i luoghi si spopolano, più i suoi abitanti si incanagliscono, litigano, si chiudono in loro stessi. È finita l’antica comunità, ma non è mai nata una città una società civile, un’altra città. Periferie deserte, banlieus lungo le coste, grandi supermercati, in odore di mafia e di riciclaggio, case palafitte e nuovo deserto. Non più luoghi e non ancora luoghi: questa è la Calabria. Frammentata, spappolata, incurante di sé stessa.

Tutto, in questa terra, parla di calamità, di catastrofi, di frane, di alluvioni, di terribili flagelli: la toponomastica, le ferite nel terreno, gli strapiombi, i riti, i miti, le processioni. Ma è una memoria sotterranea, involontaria, non consapevole. Rivolta sempre all’indietro, mai al futuro. E così la terra dei terremoti è la più fragile, la più indifesa, la più ferita. Da tutti. Dai chi governa e non previene e non interviene: le catastrofi sono fonte di ricchezza per politicanti, ordini professionali, tecnici, imprenditori, cementificatori. Dal cittadino che vuole comunque una licenza edilizia, che costruisce alla come viene, in zone rosse e franose: tanto non capiterà mai a noi e se capiterà che possiamo farci?

Crollano muri, case, paesi, orti, strade: non si cammina, c’è un rischio latente. Muti. Non conviene parlare. Tanto poi qualcuno interverrà. La Calabria frana d’inverno e brucia d’estate. Due aspetti di uno stesso fenomeno di abbandono del territorio, svuotamento delle aree interne, politiche clientelari. Guasti. Danni. Morti. E convegni, buoni propositi, progetti di recupero. Gli ordini professionali invitano a un loro coinvolgimento e così le amministrazioni. Chi ha dato le concessioni edilizie, le autorizzazioni, i visti? Non si saprà mai. Nessuno è mai responsabile. La colpa è sempre degli altri.

Un richiamo rituale alla memoria e la puntuale negazione di una memoria prospettica.

Lacrime struggenti sulle bellezze della Calabria e la pervicace diffusa tendenza a distruggerla. Calabria, bella, terra di Ulisse, mare azzurro, coste incontaminate, boschi verdi, fresche acque: a noi! A loro! Agli eredi dei boia chi molla convertiti alle più placide maniere dei berluscones locali. Il berlusconismo è una categoria trasversale, una filosofia della vita, uno stile di regime, ha contagiato tutti e tutto. Nella pubblicità. Con gli spot miliardari. Poi pensiamo noi, i compari dei nostri compari che sono compari ad avvelenare, inquinare, rendere inospitali coste e paesi.

Il berlusconismo forse precedeva Berlusconi e da noi c’erano degli antenati e adesso ci sono tanti eredi. Di ogni età e di ogni colore. La fantasia, quella più brutta, è arrivata al Potere.

Forse abbiamo bisogno di un nuovo planctus povera terra mia devastata da nuovi barbari arricchiti senza sapere bene come, spesso con la violenza. Senza meriti. Senza altre qualità che quelle dell’imbroglio e dell’inganno.

Gabriele Barrio nel XVI secolo pensava alla costruzione di un’identità di una terra antica e nobile e insieme elevava il suo planctus dolente per le rovine in atto, le incursioni dei turcheschi, le oppressioni dei baroni.

Povera terra mia devastata da nuovi barbari arricchiti senza sapere bene come, spesso con la violenza. Senza meriti. Senza altre qualità che quelle dell’imbroglio e dell’inganno.

Povera, bella terra mia, violentata e rovinata da chi non fa che esaltare le tue bellezze e intanto pensa a profitti e ad arricchimenti facili e veloci.

Piangono le coste del Tirreno e dello Ionio, i monti delle Serre e della Sila, piangono i paesi presepi abbandonati, fuggiti, scansati dai suoi abitanti in cerca di fortuna, quando restare significava povertà e miseria e ad esso ridotti a macerie di progetti e di piani di sviluppo ad opera di famelici politicanti ed ingegneri, architetti e geometri.

Amara terra mia della gente che crede, dei santi che corrono portati a spalla dagli ndranghetisti, mentre i vescovi che chiedono la pace.

Calabria degli industriali che predicano morale e fanno marce anticriminalità con le tasche piene di danaro fatto con attività nascoste e illecite.

Terra di sole e di mare con i piani per i villaggi turistici organizzati dai mafiosi, mentre i turisti fuggono dalle spiagge con le case palafitte e ridotte ad una pattumiera da depuratori miliardari mai messi in funzione. E i politici, tanti, troppi, calabresi intanto intascano soldi, voti, potere e ville gratis sul mare. E gli speculatori progettano riscatto dalla Calabria, invitano alla competizione, loro che sono cresciuti con il danaro di padri frequentatori di mafiosi. Vogliono ripulire e chiedono pulizia e creano nuove, immonde, sporcizie. Campeggiano sotto i ponti manifesti pubblicitari che ritraggono uomini politici vestito da Babbo Natale e da Befana. I doni li consegna a sé stesso. Magari sotto quel ponte, sul letto del fiume, a fianco alla strada, ha alzato pilastri e pilastri per venderci non sa quali diavolerie, non so con quali finanziamenti pubblici. E la popolazione, quella che fatica e non sa arrivare a fine mese, crede ancora a babbi natale e a befane.

Calabria bella e amara di Repaci, là dove sono scomparsi i famelici latifondisti e sono arrivati i loro figli con nuove e moderne grande idee capaci di fare restare tutto come prima. Non mollano il comando gli antichi proprietari e sono sostenuti dagli ex poveri arricchiti che hanno dimenticato in fretta la fatica e la fame dei padri.

Terra delle identità retoriche, del come è buona la soppressata e la nduja, come è piccante il peperoncino, delle sagre senza senso e dei mascherati estivi – è finito il vero Carnevale – osannata e glorificata anche dagli studiosi che scambiano per dono la violenza dei rapporti, per ospitalità le pratiche di chi attira scorie radioattive.

Non hanno mai mangiato il pane aspro, di cui hanno parlato i nonni, non hanno ascoltato le lagrime delle raccoglitrici di olive, delle donne rimaste in attesa del marito, insidiate da sindaci e da medici, crescendo figli che avrebbero visto il padre da grandi, se mai lo avrebbero visto.

Non sanno quanto costava coltivare una rasula di fagioli e irrigare campi, litigando con il povero vicino per un po’ di acqua che non c’era. E adesso inventano un paradiso che non c’era, per chiudere gli occhi davanti a un nuovo inferno.

C’era il paradiso abitato da diavoli, dicevano i forestieri. Poveri diavoli incompresi. Adesso sono rimasti diavoli, senza paradiso.

Calabria mia, terra dei politicanti corrotti, che non sanno parlane né l’italiano né il dialetto, che si sentono calunniati quando si parla di ndrangheta perché non vogliono disturbati.

La Calabria non è solo ndrangheta, dicono gli organizzatori di mille manifestazioni estive, di inutili convegni, come se la gente dovesse giustificare sempre le malefatte di chi li governa.

Non generalizziamo, dice qualcuno a questo punto.

D’accordo non generalizziamo. Voi che sapete, entrate nei particolari e nei dettagli. Non generalizziamo, diteci perché mettono la bomba a cento amministratori dei paesi, incendiano le macchine, mandano proiettili di avviso. Chi sono gli eroi colpiti? Quale opposizione hanno fatto ai grandi predatori? Quali patti hanno stretto e quali promesse non riescono a mantenere? Quali progetti hanno ideato davanti a un piatto profumato di tagliatelle e capra – avete reso odiosi anche i nostri sapori – che adesso sono diventati agguati di morte. Diteci, voi che sapete, perché quell’architetto, quel professore, quel medico messo da voi a posti di comando era poi comandato dal boss della zona?

Noi non sappiamo i fatti, diceva Pasolini, ma ascoltiamo i nomi – tutti conoscono i nomi, che sono sui siti di internet e sui giornali e sulle bocche di tanti che parlano silenziosi e spaventati come nelle più orrende dittature – immaginiamo i volti e le parole, sentiamo le pacche sulle spalle, udiamo il brindisi dei bicchieri – come è buono questo vino locale fatto nelle vigne di terreni acquistati a poco prezzo con capitali riciclati. Leggiamo sgomenti le registrazioni e le intercettazioni che hanno come protagonisti colletti bianchi e piccoli avventurieri, quelli che ci offrono il caffè e che ci sorridono, quelli che incontriamo e salutiamo nei bar e nei ristoranti. Sembrano storie incredibili e infatti lo sono: i protagonisti sono candidati e ricandidati. Che diamine! Bisogna essere garantisti. E anche i condannati hanno diritto alla pensione di onorevole, loro poveri perseguitati da una magistratura asservita – e non è detto che certe volte non lo sia.

Guardali, terra mia bella, osservali, seguili, inghiottili se puoi, consoli e proconsoli, bugiardi e parassiti, consulenti che non consigliano e lasciano pagine di parcelle senza mai avere visto l’ufficio in cui lavorano, dirigenti con stipendi di un anno che non hanno in una vita persone normali, superdirigenti che dirigono il passaggio dagli uffici degli enti pubblici in cui sono stati sistemati ai loro studi di Roma.

Osservali, Calabria, i tuoi retori, quelli della calabresità lacrimevole e melensa che costruiscono società fantasmi a Roma e a Milano, fuori e all’estero, e si irritano con quelli che, con le loro denunce, ti calunnierebbero.

Eccoli, sotto le tue nuvole, si arrampicano portaborse, mogli, figli, nipoti degli eletti. Una volta c’era il pudore e gli imbrogli venivano fatti di nascosto. Adesso ti dicono che male c’è a fare lavorare mio figlio, ti domandano: debbo penalizzare i miei familiari? La famiglia e l’onore delle tue tradizioni sono salve, sono infangate. Altra era il senso della famiglia che i contadini dovevano mandare avanti, contando le mele degli alberi, badando a che non cadessero molliche di pane per terra che subito baciavano. Altro era l’onore quando si provava vergogna ad essere preso in errore. Il rossore è scomparso e scomparsa è la dignità di un popolo reso stanco e invalido, per decenni, e adesso volgare, questuante, rampante.

Povera Calabria con gli studenti figli delle borghesie parassitarie che debbono prendere il massimo dei voti, che debbono essere garantiti, non perché non siano bravi, ma perché vanno tutelati dagli imbrogli degli altri. Eccoli questi figli dei bravi parlare ad alta voce nei locali, urlare, correre con le macchine nei paesi, fermare con lo stereo ad alta voce il traffico. Guai a protestare, appaiono i coltelli, ti arriva il compare che minaccia. Guardale le macchine rubate ai poveri Cristi a cui qualcuno che tutela l’ordine ed esegue la legge consiglia di rivolgersi a chi lui sa.

Cemento dove non serve, dove le case sono abbandonate, strade impercorribile dove ancora qualcuno resiste, mucche che camminano libere e interi luoghi pubblici chiusi. Questa, bella Calabria, è la sorte che ti abbiamo dato. Con il silenzio, con la complicità, con la paura di tutti. Tanto noi siamo gli eredi dei greci e dei romani. Tanto nelle nostre polpette identitarie tutto ritorna e niente di nuovo si forma. Solo qui siamo capaci di inneggiare contemporaneamente ai Bruzi e ad Alarico; ai bizantini e ai normanni; agli spagnoli e ai turchi; ai patrioti risorgimentali e ai borboni. Non per un senso alto della storia, non per assumerci, come dovremmo, anche il male e il negativo, le ombre e l’oscurità, ma solo per qualche mascherata in più, per qualche accesso a finanziamenti nascosti, per qualche presentazione con assessori calabresi e romani.

Non è che i calabresi siano meno buoni o meno onesti degli altri: vedo bontà e generosità vedo nelle persone che conosco, quanta forza e quanta sopportazione. Questi aspetti migliori dei calabresi vengono fagocitati da draghi, lupi famelici, belve ferine.

Perché non ci stanchiamo a invocare il passato, a trovare giustificazione in ciò che potevamo essere e non siamo stati, in una storia di catastrofi e di invasioni, di terremoti e di annessioni. Dare sempre la colpa agli uomini del passato, alle giunte precedenti, è come dare sempre la colpa al Nord e ai “piemontesi”. Ormai è passato un secolo e mezzo e il Sud ne ha sprecate occasioni e i meridionali e i calabresi non sono senza colpe. Non serve autoassolverci. Non serve rivolgere lo sguardo a un improbabile e mitico passato. Prima dell’Unità d’Italia, molto prima, prima di quel Risorgimento oggi ferito e negato da neoborbonici, esponenti di venti del Sud e di neoboia chi molla, ultimi epigoni di retoriche identitarie. Poveri briganti, ribelli, uccisi, incompresi, ingenui, eroi: a rimpiangervi oggi sono i retori dell’identità che hanno distrutto il territorio, ci hanno avvelenato, ci fanno calunniare, ci hanno reso sfiduciati e pessimisti, e hanno fatto più scempi dei piemontesi, di tutti gli invasori che si sono affacciati sulla nostra terra.

Siamo responsabili del nostro tempo, di questa Calabria, di quello che facciamo e non facciamo.

L’eredità pesa e ci segna ma non può essere sempre un alibi, il solo, per i nostri insuccessi, per i nostri vizi, per le nostre incapacità.

Siamo o non siamo la terra delle ricchezze e delle bellezze? E allora perché prevalgono sempre il senso delle rovine, il compiacimento per il dolore, il sentimento del lutto? Perché la nostra pietas e la nostra melanconia, le nostre solidarietà e le nostre accoglienze, non diventano desiderio di cambiare il presente, di vivere nel presente? Perché invece di invocare le responsabilità degli uomini del passato tolleriamo, accettiamo, votiamo, sosteniamo i volti impresentabili di chi governa, comanda, decide?

Pils, Por, sigle magiche da grande abbuffata, come il personaggio di Kerouac che intendeva “magnana” come “mangiamo”. L’uovo oggi e subito a qualsiasi costo. Altro che piani di sviluppo e progetti di rinascita: il mio, la mia famiglia, mio figlio, mia moglie, il mio amico, il mio compare. Una volta forse c’era la vergogna, adesso i reati fanno curriculum, sono una carta di presentazione e di identità perché, in fondo, arrivano da una magistratura, che naturalmente, è nemica e ostile. O no?

Terra delle incompiute e delle incompiutezze: pilastri scarni che volano verso il cielo in attesa che diventino case per essere abitate da persone che sono andate via. Terra di ecomostri e di sporcizie, di paesi fantasmi e di villaggi vuoti, terra dove anche il tempo è incompiuto e tutto è accaduto ieri o avverrà domani. Mai oggi.

«Ecco/io e te, Meridione, /dobbiamo parlarci una volta,/ ragionare davvero con calma,/ da soli, /senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade./Noi dobbiamo deciderci/ con questo cuore troppo cantastorie».

È tanti anni che scrivevi questi versi, Franco Costabile, non ti hanno ascoltato. Non ci siamo decisi. Anche noi, forse, siamo rimasti, per amore di questa terra, cantastorie. Abbiamo sopportato, tollerato, accettato. In attesa di tempi migliori e di uomini nuovi che non arrivano mai.

Ma adesso è tardi, davvero. È buio. Bisogna, davvero, deciderci. Non ci importano le accuse che conosciamo. Non ci importa sentirci dire, come in un disco stanco, che non segnaliamo la Calabria positiva, che generalizziamo, che siamo qualunquisti, che non indichiamo soluzioni, che non celebriamo la Calabria normale. Quale normalità dovremmo narrare e celebrare se persino i tratti antropologici più ammirevoli vengono erosi e corrosi. Ci siamo accorti di essere diventati razzisti quasi come quelli della Lega Nord? Ci siamo accorti della lettera degli africani di Rosarno? L’ospitalità, mi dirà qualcuno. Ci sono i sindaci di Riace e di Acquaformosa e di altri paesi dell’accoglienza, ma quanto dureranno queste esperienze mentre governatori e governati pensano a più lucrose forme di accoglienza?

Sono andato all’Olimpico a vedere la partita Roma-Juventus. Per la prima volta ho sentito gli ultras romanisti gridare verso la curva juventina: «Siete tutti calabresi! Siete tutti calabresi». Sono juventino, ma penso che della Juventus si possa dire tutto il male possibile. Non è questo ad inquietarmi. Inquietante è che gli ultras per demonizzare, denigrare, ingiuriare, zittire le opposte tifoserie parlano dei calabresi come figure infime, basse, deteriori, meritevoli di scherno. Una storia antica: da quando viene detto che i Bruzi sono stati uccisori di Cristo o che il calabrese è un merducolo e un animale. Razzismo e xenofobia. Va bene. Ma ci sarà una qualche ragione per il permanere di queste immagini negative? Siamo del tutto innocenti? Non abbiamo almeno qualche responsabilità nel non essere capaci di negare, contrastare, con i fatti, prima che con le parole, e con i concetti, queste immagini?

Ho fatto un lungo pomeriggio di esami: studentesse e studenti puliti, belli, capaci di parlare. Con progetti e idee, con competenze. Abbiamo parlato dei loro luoghi. Paesi e città. Solitudine, clientele, incompetenze. Non vedono l’ora di fuggire da questo mondo, da questa politica. È la sconfitta di chi è rimasto in questa terra; è la sconfitta di chi se ne andato con nostalgia e per un mondo migliore. Calabria dei tanti tradimenti. Abbiamo atteso fiduciosi in una possibile inversione di tendenza, siamo stati indulgenti, abbiamo anche scelto il meno peggio, ci siamo anche sforzati di segnalare le nostre nobiltà, abbiamo cercato e indicato positività. Non serve.

Ti voglio troppo bene, Calabria, per poter stare zitto. Ti ho troppo amata per non dirti come ti vedo e come sei. Per non sentirmi tradito. Per non dover invitare a un’indignazione salvifica, a una ribellione civile, a un’inversione di tendenza. Per non dire che mi chiamo fuori da questo “noi calabresi” per sentirmi parte di un “noi del mondo” come quei giovani che non possono essere traditi neanche da chi si sente tradito.

I miti e i riti, le leggende e le storie, Gioacchino e Campanella, Alvaro e Calogero, Barrio e Padula: quante fatiche e quante ricerche hanno impegnato giovani e meno giovani studiosi calabresi e non. Quanta generosità e passione per rileggere l’identità alta e popolare, aperta e plurale, di una Calabria, aperta, non angusta. Quanti scavi e quanti viaggi.

Un senso di inutilità ti avvolge: qui tutto può essere banalizzato, folklorizzato. Alvaro viene accostato dall’angusto studioso di paese a una gloria locale che nulla ha di glorioso. L’identità viene svenduta, mummificandola, riducendola a polpetta immangiabile, inservibile. Non solo sulle catastrofi i gruppi dirigenti politici e non hanno saputo prosperare, adesso si sono accorti che beni culturali, artistici, materiali, simbolici possono essere pubblicizzati e adoperati per attrarre danaro pubblico. Punto. Poi i ruderi crollano, crollano i paesi, vengono soffocate le fontane, chiusi i fiumi, sventrate le colline, imprigionate le spiagge. Nessuna edizione critica di autore, nessun impegno concreto nelle scuole, altro luogo di sapere ridotto spesso a zona di conflitto e di tensione. I giovani possono aspettare, tanto non c’è futuro, e allora noi ci spartiamo le dirigenze, le zone, i piccoli profitti, le nuove miserie.

L’educazione civica e l’invito alle regole da chi dovrebbero essere insegnati se chi dovrebbe occuparsene è sregolato, fuorilegge, dipendente dal politico di turno. I ceti intellettuali e i professionisti hanno rinunciato a ogni loro ruolo, hanno tradito i padri che con fatica li hanno fatti studiare, delegano al politicante corrotto la rappresentanza e la fortuna.

Mai un no alle pretese, alle richieste, alle invadenze della politica nella sfera pubblica e in quella privata: sempre compiacenti e il politico che conta battezza I figli, fa da compare di anello, salvo poi a vedersi appartato, ignorato, quando arrivano gli altri.

I nostri sono sempre in arrivo, sempre svelando le menzogne e I soprusi di quelli di prima, annunciando una nuova era, un’inversione di tendenza. Chiacchiere. Non c’è mai limite al peggio. “Il peggio è indietro”, dicevano i miei contadini, comprendendo che il peggio è avanti, può ancora arrivare. Una sapienza antica, considerata arcaica, che oggi ha qualcosa di insegnare alla cultura delle apocalissi e alle riflessioni sulla fine, alla paura della scomparsa dell’umanità.

La Calabria anticipa quanto di più terribile e inquietante accade nel resto d’Italia o del mondo o incarna, in maniera perversa, le negatività. Talvolta delle positività. Metafora della contemporaneità. La terra dei contrasti, delle doppiezze, delle separatezze potrebbe essere un laboratorio per interrogare, decifrare, capire la complessità e invece viene ridotta a discarica, a pattumiera, a terra di scarti e di rifiuti. E gli scarti umani aumentano, e così il loro bisogno di sopravvivenza e il cinismo di chi decide e prospera sulle miserie.

Sì, individuiamo esempi virtuosi, persone generosi, giovani di qualità. Non serve. Debbono fuggire e, se restano, vengono fagocitati, umiliati, dalle logiche clientelari, dalle attese, da quanti ti vendono per favore un diritto, per concessione quello che ti spetta.

Non ci salverà nessun vento o fuoco del Sud, nessun richiamo nostalgico e retorico a un passato mai esistente, nessuna versione aggiornata e verniciata dei boia chi molla, nessun invito al garantismo, nessuna retorica antindrangheta o retorica antiantindrangheta, nessuna esaltazione del ribellismo che spesso si traduce in apologia della ndrangheta. Non ci salveranno questi uomini e queste donne al potere, questi partiti e questi gruppi dirigenti. Non ci salveranno tanti bravi intellettuali distratti, preoccupati dei loro capolavori o dei finanziamenti. Non ci salveranno i calabresi che se la prendono con quelli che se ne sono andati e i calabresi che se ne sono andati e sono irritati con i calabresi rimasti. Versione antica e sempre aggiornata del tutti contro tutti, del ritenere che la colpa sia sempre degli altri, della facilità a chiamarsi fuori, a fuggire dalla nave che affonda e a saltare su qualsiasi scialuppa di salvezza.

La verità dolorosa e affascinante dell’esule e dello stanziale, del viaggiatore e del “sostatore”, dell’erranza e del ritorno, non può diventare retorica; non può diventare alibi, autocompiacimento, autoassoluzione.

C’è qualcuno, qui ed ora, pronto ad indignarsi, magari senza dire che l’indignazione non basta?

Ci salverà un nuovo Risorgimento? Allo stato attuale sono intollerabili i silenzi assordanti, le rassegnazioni interessate, le connivenze e le complicità per pigrizia, l’incapacità dei tanti bravi e onesti calabresi di mettersi assieme, di fare una rete, una nuova “setta” aperta, una lobby generosa che coniughi indignazione e progetto, planctus e speranza, nostalgia ed utopia, memoria ed oblio, tolleranza ed indulgenza, accoglienza del sé e accoglienza degli altri. Sbrighiamoci, è tardi, o diciamoci, davvero, per sempre addio.

VITO TETI

 

Dalla pagina Fb dell’autore

Foto: Rete

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