La giornata del monaco nella Calabria del X sec.

Oggi come allora, la giornata del monaco si suddivide all’incirca in otto ore di preghiera, otto di lavoro e otto di riposo, ed è scandita dalle ore liturgiche bizantine. Il nuovo giorno inizia al tramonto del sole. Dopo il riposo notturno (i monaci vanno a letto presto), all’una o alle due di notte secondo le stagioni, al rintocco del sìmandron, i monaci, rivestiti dell’abito corale, si radunano nella chiesa del monastero e celebrano l’ufficio notturno (μεσονυκτικον), poi l’ufficio dell’alba o mattutino (ορθρος), accompagnato dalle lodi mattutine (αινοι). Segue la liturgia eucaristica (la Divina Liturgia), per la quale il presbitero e il diacono indossano le vesti liturgiche. Il sacerdote in un piccolo monastero è generalmente lo stesso ηγουμενος (igùmenos), ma se i presbiteri sono più di uno (cosa normale nei monasteri più grandi), la Divina Liturgia viene celebrata a turno. Solo nelle feste la celebrazione è presieduta dall‘igùmenos, con altri sacerdoti concelebranti. La celebrazione notturna e mattutina dura da quattro a cinque ore. Le varie funzioni avvengono a intervalli una dall’altra. Alla vigilia delle grandi feste vi è la παννυχις (pannychis, “veglia di una notte intera”) o αγρυπνια (agrypnia, “rinuncia al sonno”).

Dopo la Divina Liturgia, i monaci consumano una frugale colazione, quindi inizia il lavoro a cui ciascuno si applica in vari modi a seconda delle proprie mansioni. Il pranzo è nelle prime ore della mattina a seconda di quando comincia a sorgere il sole.

Nelle prime ore pomeridiane c’è un riposo, fino alle due o alle tre. Quest’usanza è comune nei paesi mediterranei ed è indispensabile nei monasteri dove metà della notte viene passata in preghiera. Nel secondo pomeriggio si riapre la chiesa per l’ora di nona e di vespero (εσπερινος) e si riprende il lavoro. Dopo la cena (δειπνον) c’è un po’ di tempo libero e la compieta (αποδειπνον).

A differenza di quanto si è imposto in Occidente, la preghiera dell’ufficio divino non è un obbligo individuale, ma della comunità. Le composizioni dell’ufficio bizantino sono così numerose e ricche da non potersi riunire in un breviario portatile di facile consultazione per il singolo: esse compongono una piccola biblioteca. Le ufficiature liturgiche hanno varie parti: le preghiere che sono recitate dal sacerdote all’altare; le invocazioni che sono cantate dal diacono tra due cori; i salmi, i canti, le letture che sono cantati alternativamente da due cori. I monaci lettori sono riuniti attorno ai leggii, a destra e a sinistra. Sui leggii sono collocati grandi libri che riportano gli uffici di ogni giorno, dei santi e delle feste. Gli altri monaci stanno disposti nei loro stalli tutt’attorno alle pareti della chiesa, ascoltando senza leggere, segnandosi e inchinandosi nei momenti stabiliti. Altre parti dell’ufficio sono: l’ora di prima, di terza, di sesta, che possono essere recitate in altri luoghi, anche sul posto di lavoro. Comunque, la prima può essere un’appendice delle lodi mattutine e la nona è recitata prima del vespero nel pomeriggio. Lαποδειπνον (apòdipnon, “dopo cena”), cioè la compieta, è recitato in comune o in privato prima del riposo notturno.

Il monaco calabrese del X secolo vestiva in maniera molto semplice e probabilmente, come abbiamo visto, dovevano esserci già differenze di abbigliamento a seconda dei gradi di professione. Dalla Vita di san Nilo, ad esempio, apprendiamo che l’abito monastico consisteva in una tunica di lana (tunica) legata da una cintura (ζωνη) e in una sopravveste (amictus). Con tali termini, presenti solo nella traduzione latina, in quanto il codice di Grottaferrata è mutilo di una pagina, bisogna intendere probabilmente i due indumenti monastici per eccellenza: il comune saio o tunica monastica (detto anche τριβωνιον, χιτων o ρασον), generalmente di colore chiaro e il μανδυας (mandyas), ampio mantello che copre tutto il corpo, generalmente di colore scuro. Sul capo, per ripararsi dal freddo, il monaco indossava il κουκουλιον (kukùlion): era una specie di cappuccio che ricopriva il capo con due larghe strisce scendenti, l’una dinanzi al petto, portante segni simbolici con le lettere ΙΣ XΣ NI KA (cioè Ιησους Χριστος νικα, “Gesù Cristo vince”), disposte ai quattro angoli di una croce, oppure il monogramma costantiniano, cioè un X e un P sovrapposti; l’altra scendeva sulle spalle, fin sotto le ginocchia.

Il vitto dei monaci, allora come oggi, doveva essere assai frugale: di solito vengono servite minestre di legumi (fagioli, lenticchie, ceci) cotti in acqua (οστρεα εψημενα) e conditi con olio (ελαιον), verdure cotte o crude (λαχανα), pane (αρτος), pesce () e formaggio (rvpóg), un paio di volte la settimana, e frutta fresca o secca. La carne è praticamente esclusa, ma i monaci si concedono un bicchiere di vino che non manca nei giorni ordinati. Nei giorni di digiuno i monaci si astengono dal pesce, dai latticini, dall’olio e dal vino. Inoltre in questi giorni vi è un solo pasto completo; alla sera solo una piccola refezione.

I giorni di digiuno sono centoventicinque, distribuiti in quattro periodi: dal 15 novembre in preparazione al Santo Natale, nella Grande Quaresima dalla sesta settimana prima della Santa Pasqua, dalla domenica dopo Pentecoste in preparazione alla festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno), dal primo di agosto in preparazione alla festa della Dormizione (o Assunzione) della Madonna (15 agosto). Inoltre ogni mercoledì e venerdì nel corso dell’anno è giorno di digiuno, tranne qualche mitigazione quando uno di questi giorni coincide con una festa. Durante il pranzo, che ha luogo nel refettorio comune, un lettore a turno legge la vita dì qualche santo o scritti ascetici. […]

Fonte: “San Nicola dei Greci a Scalea”, di Amito Vacchiano e Antonio Vincenzo Valente – Salviati

Foto: Rete

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