Avena fatua – Avena selvatica

 

Molte specie del genere Avena, che oggi compaiono soltanto ai margini delle strade e dei campi, erano un tempo importanti fonti alimentari. È questo il caso di A. fatua e di A. sterilis, le due avene selvatiche comuni in tutta Italia nei luoghi erbosi incolti, le cui cariossidi sono state rinvenute in villaggi europei dell’Età del bronzo, risalenti a circa 7,000 anni prima di Cristo.

Le avene oggi coltivate, cioè A. sativa e A. bizantina, derivano da A. sterilis. Questa specie ha un carattere – la caduta spontanea delle spighette – comune nelle Graminacee e favorevole alla dispersione delle cariossidi. Sin dai tempi più antichi, gli agricoltori hanno favorito in A. sterilis le piante che presentavano un numero sempre più elevato di spighette che a maturità non cadevano spontaneamente.

Veniva cosi agevolata la raccolta con la mietitura. La resta portata dalla lemma è spiralata nella metà superiore. Quando le spighette cadono, tale resta funziona come organo di movimento: l’umidità la distende e il tempo secco ne provoca la spiralizzazione. Se esistono fenditure nel suolo, la successione di periodi umidi e secchi permette alla cariosside di interrarsi facilmente, dal momento che le setole e i peli alla base della resta favoriscono il movimento soltanto in una direzione.

Ogni spighetta è circondata da due grandi glume e contiene due fiori fertili. Le glumette inferiori (lemme) sono provviste ciascuna di una lunga resta, piegata e spiralata nella metà superiore. Alla base delle reste la lemma è pelosa e setolosa.

I fusti eretti di questa pianta annuale portano vistose pannocchie con spighette provviste di due grandi glume, dalle quali sporgono due lunghe reste. Altezza: 60-100 cm. Fiorisce da maggio ad agosto.

Da “GUIDA PRATICA AI FIORI SPONTANEI IN ITALIA” – Selezione dal R.Digest

 

Avena fatua. Da piccoli ci si lanciava i penduli frutti e si contava quanti ne restavano attaccati ai vestiti, si diceva fossero le fidanzate che avevi. Sugli steli si facevano dei cappi per catturare le lucertole o si legavano ad una zampa delle cetonie per farle volare. Non c’era la sensibilità animalista di oggi ma si conosceva meglio la natura. In passati meno recenti i contadini mutavano gli steli in flauti o pifferi.

Io sento il suono dell’antica avena

Su l’alba ancora scialba, ma serena.

Pascoli. I canti di Castelvecchio

 

L’avena fatua è “fatua”, sciocca, insignificante, spiritualmente superficiale. Linneo la chiamò così perché é vero che é commestibile ma é povera di sostanza, insignificante per l’alimentazione umana e se ne sta ad ondeggiare al sole infilandosi negli occhi, nelle narici o nelle orecchie degli animali. Non come la sorella nobile, l’Avena sativa! Oddio…non é che noi la stimassimo troppo, al contrario dei popoli del centro e nord Europa. Si diceva che l’Avena fosse lo stato degenerato del grano e dell’orzo, come fosse una mutazione a cui andavano incontro i cereali maggiori quando pativano. Plinio ne era convinto e questa credenza sopravvisse molto a lungo e ancora nel Rinascimento lo si credeva. Sia il Mattioli che Castore Durante la consideravano un cibo mediocre, più adatto ai cavalli che agli uomini.

In Germania invece era molto apprezzata e ne é nata tutta una tradizione gastronomica di cui i tedeschi vanno fieri.

L’Avena fatua é realmente buona per i cavalli ed il fieno che produce é un ottimo foraggio, nutriente e ricco di vitamina A e silice e produce un effetto defaticante sugli animali ma possiede anche proprietà medicinali; è ad esempio un buon emolliente, noi ci facevamo il bagnetto alla bimba neonata, é rinfrescante ed il profumo del fieno d’avena, in un cuscino ad esempio, facilita il sonno. È una dei fiori di Bach, dedicata a chi subisce gli influssi del vento; agli indecisi, agli irresoluti, agli irrisolti.

Una favola tedesca racconta che la volpe e il lupo presero a coltivare un campo assieme. Seminarono l’avena e quando crebbe, la volpe chiese al lupo se preferisse le rachitiche spighette o le voluminose radici. Il lupo pensando al buon affare scelse la quantità delle radici e restò gabbato. L’anno successivo piantarono patate e quando crebbero, il lupo deciso a non commettere due volte lo stesso errore scelse per sé le lussureggianti fronde, lasciando le terrose radiche alla volpe; a lui le radici dell’anno prima non erano piaciute per nulla.

 

FONTE: dalla pagina Fb ETNOBOTANICA

Foto: actaplantarum

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