Il lavoro del monaco nella Calabria del X secolo

Soleto – Santo Stefano

Il cenobio […] è concepito come una comunità autosufficiente. Fra i doveri del monaco, dunque, vi è il lavoro e ciò in pieno accordo con il ben noto precetto paolino: Ει τις ου θελει εργαζεσθαι μεδη εσθιετω («chi non vuoi lavorare neppure mangi»).

Al lavoro, tanto quello materiale quanto quello intellettuale, il monaco dedica almeno otto ore, in pratica un terzo della giornata. Alcuni monaci si dedicano all’agricoltura, lavorando nelle coltivazioni (orti, vigneti, uliveti) impiantate nelle proprietà del monastero e sorvegliando (o eseguendo di persona) la raccolta di legname o altri materiali utili nelle foreste del circondario. Se i luoghi di lavoro sono vicini, i monaci vi si recano ogni giorno; se invece sono distanti, è prevista la possibilità di soggiorni prolungati o la costituzione su queste proprietà di veri e propri μετοχια. In tal modo il monastero arriva anche ad esportare vino, olio, legname, procurandosi in cambio i generi che non si possono trovare sul posto, ma devono essere acquistati altrove (arredi sacri, pergamena, ecc.).

A Scalea, poi, essendo un centro marittimo, non è escluso che alcuni monaci si dedicassero anche alla pesca, o almeno alla produzione di pesce salato o essiccato, non solo per il fabbisogno locale ma anche per l’esportazione.

Altri monaci restano nel monastero dedicandosi a diverse attività non meno utili per la collettività. È probabile che nel monastero non mancassero mai un esperto carpentiere (τεκτων), un fabbro (χαλκευς o più popolarmente χαλκωματας), un pittore di icone o affreschi (ζωγραφος), ecc.

Accanto al lavoro manuale, era grandemente apprezzato anche quello intellettuale.

Questo consisteva non solo nell’approfondimento del proprio sapere religioso, attraverso lo studio dei testi sacri e delle opere esegetiche e dogmatiche dei santi Padri, ma anche nella cura, conservazione e riproduzione dei codici manoscritti che tramandavano tali opere. Le necessità liturgiche e formative di una comunità monastica, infatti, richiedevano ai monaci una notevole attività di trascrizione. Anche san Teodoro Studita nella sua riforma monastica, che all’inizio del IX secolo segnò una svolta nel monachesimo bizantino, aveva dato un posto di prim’ordine alla biblioteca. Il monastero doveva essere provvisto di un cospicuo numero di volumi, conservati in un apposito locale sotto la custodia di un monaco incaricato di tale ufficio, il βιβλιοφυλαξ, (vivliofilax) (1). Nonostante le agitate vicende politiche e la precaria situazione economica della regione calabra nei secoli IX-XI, dunque, ogni monastero, anche il più piccolo, doveva sempre possedere una biblioteca, perché i libri erano indispensabili non solo per la celebrazione dell’Ufficio e della Divina Liturgia (2), ma anche per la formazione culturale e religiosa dei monaci. Dato l’alto costo dei materiali scrittorii e la scarsa disponibilità di libri in quell’epoca, era frequente il caso di monasteri che affiancavano alla biblioteca anche uno scriptorium, un luogo cioè dove venivano prodotti nuovi manoscritti per le esigenze interne e, all’occorrenza, anche per quelle di committenti esterni.

È molto probabile che anche i monaci di Scalea avessero un buon livello culturale. Grazie ad una nota marginale del codice Vat. gr. 1673, infatti, siamo in grado di documentare l’esistenza di un centro di copia – o quantomeno di un monaco copista – all’interno del monastero greco “dei Taorminesi”, che, sebbene fuori della cinta muraria, sappiamo trovarsi a Scalea, sulla sponda destra del torrente Basso. Nel margine laterale del f. 328, infatti, un monaco siciliano della comunità di Taormina annota: Ευγε π(ατ)ερ Βασιλειε οντως γαρ και νυν ημιν τοις ταπεινοις Ταυρομενιταις εκ  πληθους αμαρτιων πολυειθων επηλθεν ο ολεθρος και δικαιως (3) Questa nota commenta un passo di san Basilio contenuto nello stesso foglio, in cui il santo di Cesarea afferma tra l’altro che αι πανολεθριαι των πολεων (“le rovine delle città») sono causate dal peccato e che la morte non è un male. Il professor Santo Lucà, secondo cui il manoscritto, vergato in una minuscola calligrafica, è databile agli anni a cavaliere tra i secoli X e XI, molto opportunamente ha messo in relazione questo centro scrittorio con i monasteri menzionati nella Vita di san Saba che si trovavano ai confini calabro-lucani (4). Questa notizia, poi, rafforza – benché non la confermi – l’ipotesi avanzata da padre Francesco Russo, secondo cui il codice Crypt. B. /3. 5 (gr. 478) della fine del X secolo, contenente la Vita di san Pancrazio di Taormina, proverrebbe dallo stesso monastero (5). Purtroppo lo studioso non motiva le ragioni del suo convincimento, che pertanto rimane solo un’ipotesi.

E comunque suggestiva e non inverosimile l’idea che gli esuli di Taormina, ormai da qualche anno a Scalea, onorassero la memoria del Santo loro conterraneo, studiando i testi che ne tramandavano la vita e trascrivendo preziosi manoscritti che probabilmente avevano portato con loro dalla Sicilia (6). Se nella comunità “dei Taorminesi”, dunque, esisteva un centro di copia, cioè uno scriptorium, è assai verosimile che anche il monastero “dei Siracusani” fosse dotato di una istituzione simile. Il monastero di San Nicola, infatti, era una fondazione di gran lunga più illustre e prestigiosa rispetto a quella di Santa Lucia dei Taorminesi, come dimostra la maggiore antichità (anche se di lieve misura) e la posizione predominante e nettamente più vantaggiosa, in quanto dislocata sull’altura. […]

AMITO VACCHIANO – ANTONIO VINCENZO VALENTE

Da “San Nicola dei Greci a Scalea” – Salviati

Foto: Rete

Scriptorium -Miniatura-tratta-dal-Libro-de-los-Juegos

NOTE

1 –  La regola studita prevede che nei giorni festivi, al segnale dato dal bibliotecario, i monaci  debbano riunirsi là dove i libri sono custoditi e ciascuno di essi debba prenderne uno, per leggerlo fino a sera; prima dell’ufficio vespertino, un nuovo segnale del bibliotecario richiamerà i monaci nella biblioteca, perché restituiscano ordinatamente i libri. Ogni monastero, dunque, doveva possedere almeno tanti codici quanti erano i monaci: ciò spiega la necessità di un operoso scriptorium che trascrivesse i codici anzitutto per la comunità monastica, e secondariamente anche per soddisfare richieste esterne (privati laici, sacerdoti, vescovi, o anche monasteri privi di scrìptorium). Anche per lo scriptorium la regola studita contiene prescrizioni precise, accompagnate da sanzioni più o meno severe che vanno dalla scomunica alle ripetute genuflessioni. Ad esempio, l’amanuense deve tenere con cura sia il fascicolo su cui scrive sia l’antigrafo da cui copia; deve rispettare l’ortografia, l’accentazione, l’interpunzione; deve badare a non saltare parole o frasi e a non introdurne di nuove. […]

2 –  Si pensi che solo i libri liturgici, indispensabili per qualsiasi chiesa di rito bizantino, sono almeno una decina e alcuni divisi in più volumi: ευαγγελιαριον (evangheliarion), αποστολος (apostolos), ψαλτηριον (psaltirion), λειτουργικον (liturghikon), ευχολογιον (efchologhion), ωρολογιον (orologhion), πεντηκοσταριον (pentikostarion), οκτωηχος (oktoikos), τριοδιον (triodion), μηναια (minea).

3 –  «Bene! O padre Basilio, veramente, infatti, anche su noi miseri Taorminesi, per il gran numero dei nostri svariati peccati, la rovina è piombata, e giustamente»: cfr. SANTO LUCA, Attività scrittoria e culturale a Rossano: da s. Nilo a s. Bartolomeo da Simeri (secoli X-XII), in Atti del Congresso Internazionale su s. Nilo di Rossano […]

4 – S. LUCA’, Attività scrittoria e culturale a Rossano…, cit., p. 40, nota 70. Lo studioso, tuttavia, cade in un’imprecisione quando nella stessa nota afferma: «Nella Vita Sabae viene menzionato nella zona del Latiniano un monastero dei Siracusani (capp. 16-17 [= pp. 28-29]) e nei pressi di Lagonegro uno dei Taorminesi (capp. 30-31 [= pp. 45-46])». Il monastero dei Siracusani, quindi, secondo Lucà, era ubicato nella regione di Latiniano, che da tutti gli studiosi è messa in relazione con la valle del Sinni nell’attuale Basilicata. Nel passo da lui citato della Vita di san Saba, invece, si dice espressamente che il miracolo della liberazione dal flagello delle cavallette venne operato da san Saba mentre si trovava nella regione di Mercurio (τη του Μερκουριου επαρχια) e che questa si trovava presso il mare: le locuste, infatti, passate nel territorio di Aieta (την της Αιτης επαρχιαν), collocato quindi correttamente ai confini di quello di Mercurio, vennero debellate da una tempesta invocata dal Santo e da questa scaraventate nel mare, dove perirono.

5 – FRANCESCO RUSSO, Storia della Diocesi di Cassano al Jonio, cit., voi. I, p. 174.

6 – La Vita di san Pancrazio di Taormina è una lunghissima opera agiografica, tramandata in una dozzina di codici databili tra il X e il XVII secolo, quasi tutti greci, tranne uno, in latino. […]

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