GRAMSCI, le lettere dal carcere

 

Anche chi ha appena sentito parlare di Antonio Granisci e lo colloca a malapena tra i leggendari «leader storici» del comunismo, o nella galleria dei martiri dell’antifascismo, non si deve sentire intimidito: le lettere parlano da sole e parlano un linguaggio semplice, accessibile a chiunque abbia mente e cuore, il giovane e l’anziano, chi ha fatto appena la terza elementare e chi ha una laurea.

Forniamo loro, in ogni caso, gli estremi essenziali, la cornice del quadro. Non si tratta di un testo politico né filosofico, anche se dentro c’è tanto entroterra culturale ed etico. In primo piano sta una tragedia personale. Sono, quasi tutte, lettere familiari. Le prime portano la data del novembre 1926 allorquando Antonio Granisci, segretario del PC d’Italia, fu arrestato nonostante non avesse violato alcuna legge e fosse un parlamentare. Arrestato, confinato, processato, condannato a venti anni di reclusione. Il lettore vedrà come li sconta, giorno dopo giorno. Le ultime risalgono all’inizio del 1937. Granisci sta per morire: il fascismo è riuscito ad ucciderlo lentamente.

Le lettere sono indirizzate a due nuclei familiari. C’è la famiglia d’origine, sarda, numerosa. A casa, a Ghilarza, vivono il vecchio padre, la madre, le sorelle. Antonio è il quarto dei sette figli di Francesco Gramsci e di Peppina Marcias. Da tempo è lontano dai paesi natii, posti nel mezzo dell’isola («Come mi piaceva da ragazzo la valle del Tirso sotto San Serafino…»), c’è tornato per pochi giorni due volte, di sfuggita. Quando viene arrestato ha trentacinque anni, è un uomo giovane; quando muore, il 27 aprile 1937, ne ha appena compiuti quarantasei. I corrispondenti da casa, da Ghilarza, sono la madre, due delle tre sorelle, Teresina e Grazietta, oltre a un fratellominore, Carlo, che vive sul Continente, a Milano. Altri due fratelli, Gennaro, il primogenito, che sta a Parigi e Mario, gli faranno una volta visita in carcere, ma non vi sono loro lettere al detenuto, né di lui a loro.

L’altra famiglia, quella acquisita, è russa. La moglie, Giulia Schucht, gli ha dato due bambini, Delio e Giuliano, e ne riparleremo. E c’è una sorella sua più grande, Tatiana, l’unica costante corrispondente del detenuto. In questo caso, il lettore comincerà presto a conoscerla da sé, in controluce, man mano che si inoltrerà nel racconto. Tatiana è straordinariamente affettuosa verso il congiunto, sempre «disponibile», come si dice oggi, alle più varie incombenze. La si sente sollecita fino all’ansietà, capace di commuovere ma anche di irritare il cognato, pronta a fare da tramite non solo postale tra lui e la moglie, a schivare per l’uno e per l’altra i colpi delle incomprensioni reciproche. Tatiana, inoltre, trasmette desideri, richieste pratiche, domande culturali o giuridiche di Antonio, all’altro personaggio che sta un po’ nell’ombra ma è sempre presente, l’amico più caro di Granisci, Piero Sraffa. Questi, antifascista, vicino ai comunisti che ha conosciuto nella prima giovinezza (quelli dell’«Ordine Nuovo» torinese) insegna allora a Cambridge, ed è un economista di grande valore.

Si forma così — lo si segue da molte lettere — un triangolo Antonio-Tatiana-Piero. Ma Tatiana — perché non ricordarlo adeguatamente? — è una figura intellettualmente pronta, vivace, una persona colta, e le sue risposte ad Antonio sollevano esse stesse quesiti generali, morali, storici a cui questi risponde volentieri anche se a volte si arrabbia o scantona. Tatiana gli crea proprio ciò di cui Gramsci ha bisogno per «intervenire», cioè uno stimolo dialogico. È in una lettera a Tatiana che Antonio rivela la sua «vera esigenza psicologica» di un confronto con l’interlocutore. «Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento nessuno stimolo intellettuale. Come ti ho detto una volta, non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari voglio fare dei dialoghi».

Si può dire che in questa chiave possiamo individuare meglio intensità e difficoltà del «dialogo» con le sorelle Schucht, la moglie e le due cognate, Tatiana ed Eugenia. È un ambiente che non si potrebbe immaginare più diverso da quello di Ghilarza. Il padre, Apollo, è un ricco signore russo che ha avuto guai con il regime zarista, si è schierato presto con i bolscevichi, e bolscevichi diventano i figli (un maschio e quattro femmine), le ragazze in particolare. Ma è anche una famiglia di una formazione culturale tipicamente cosmopolita (Francia, Svizzera, Italia). C’è chi ha vissuto tutta l’infanzia e l’adolescenza a Roma: Tatiana ha frequentato i corsi di Scienze naturali alla Sapienza; Giulia, nata nel 1896 (ha quindi cinque anni meno di Antonio), si è diplomata in violino a Santa Cecilia; Eugenia, la più grande, molto malata quando Antonio la conosce in un sanatorio alla periferia di Mosca nel 1922 (il famoso «Bosco d’argento»), è una studiosa d’arte.

Sono e saranno tutte innamorate di Antonio, di questo rivoluzionario italiano dal corpo infelice e dalla testa leonina, con grandi occhi celesti? Lo si è detto molto, anche se la devozione di Tatiana si spiega meglio in se stessa, per così dire: una creatura che ha bisogno di vivere per gli altri, per qualcuno che possa assistere e aiutare. Sullo sfondo, un po’ misteriosa, c’è Eugenia, dal forte carattere. Più fragile è Julca con la quale Antonio ha intrecciato, tra il 1922 e il 1926, una bella, romantica storia d’amore. Le incomprensioni verranno dopo: si sono conosciuti così poco. Con Tania il rapporto, più semplice, è anche, appunto, un commercio intellettuale. A volte, dibattendo di questa o quella questione (le razze, ad esempio) Antonio ne approfitta per fornire uno spaccato autobiografico, persino da albero genealogico: «Io stesso non ho razza; mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante la guerra del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era una Gonzales e discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell’Italia meridionale (come ne rimasero tante dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per il padre e per la madre, e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847… Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo».

Quanto la si sente l’italianità di Granisci anche in queste sue lettere! Il «triplice e quadruplice provinciale» che da Cagliari arriva a Torino nel 1911 si nutre della cultura italiana da Dante a Machiavelli a Croce. Non è un provinciale, a vero dire; provinciale oltreché tirannico è il regime che l’ha condannato a venti anni di reclusione soltanto — letteralmente — perché egli è il capo dei comunisti. Non è un nazionalista, il suo orizzonte, il suo mondo sono internazionalisti. La cultura, la lingua francese, inglese, tedesca, russa lo interessano allo stesso modo. Ma i legami di Gramsci con il mondo popolare italiano, operaio e contadino, si vedono attraverso quelle osservazioni improvvise che gli viene fatto di inserire nel corso, nel corpo, di questa o quella lettera. Così come gli torna a mente e sulla pagina spesso la povertà in cui è vissuto e cresciuto, la durezza delle condizioni economiche in cui ha passato il suo garzonato studentesco e universitario, dal ginnasio di Santu Lussurgiu al liceo Dettori di Cagliari, alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino.

Ma qui cade acconcia un’altra avvertenza preliminare. Le prime lettere sono scritte dal confino ad Ustica, poi, via via, in una cella, nel carcere giudiziario di Milano o a Regina Coeli durante e dopo il processo tra il maggio e il luglio del 1928, quindi nel penitenziario di Turi di Bari tra l’estate del 1928 e l’inverno del 1933, e poi ancora nei luoghi di cura in cui si trova in stato di detenzione, tra la fine del 1933 e il 1935-[…].

Sono lettere personali, tuttavia sono «pubblicizzate» per il semplice fatto che ciascuna deve passare, per essere inoltrata, attraverso la censura dei carcerieri, attraverso l’occhio vigile del direttore, dell’autorità. Il detenuto di Turi riceve in consegna ogni quindici giorni un foglio bianco di quattro facciate, deve stare entro quei limiti e ogni volta scegliere il destinatario. C’è un giorno fisso, anzi un’ora fissa per scrivere e consegnare al secondino, sennò si perde il turno (quando il lettore trova sotto la stessa data due lettere, l’una indirizzata alla moglie e l’altra alla cognata, significa semplicemente che quest’ultima provvede a far giungere alla prima quella metà del foglio destinato alla sorella).

La posta, in sostanza, va vista tenendo sempre presente che essa sottostà a una regola implicita di autocensura, che lo scrivente deve superare un blocco psicologico prima di scrivere, non si può abbandonare a confidenze imprudenti, tenerezze indiscrete, informazioni sulla vita reale nel luogo di pena. L’autocensura è, in primo luogo, sentimentale: provoca cioè un ulteriore imbarazzato riserbo in chi come Gramsci ha di già un estremo pudore ad esprimere un trasporto d’amore, un affetto, ad abbandonarsi a un sentimento o anche a un risentimento. Ed è autocensura politica. Il detenuto non può dire la sua sul «mondo grande e terribile e complesso» che sta al di là delle inferriate e delle bocche di lupo della cella (e di cui ha notizia quasi soltanto attraverso i giornali, tutti uguali, del regime fascista, a cui si è abbonato, o attraverso qualche colloquio con i compagni che nel frattempo l’hanno raggiunto nella casa di pena o che ha trovato già lì). Proibito esprimere un giudizio scritto sul regime fascista, proibito, non meno, intervenire sui problemi del movimento comunista internazionale, a proposito dei quali egli ha idee e posizioni che in alcuni anni contrastano duramente con quelle ufficiali di chi il movimento dirige.

Ecco, dunque, alcune coordinate obbligate dell’epistolario. Forse il rigore della scrittura, la molteplicità allusiva di cenni e richiami, la misura tacitiana delle espressioni, certe immagini folgoranti che irrompono e altrettanto rapidamente scompaiono, sono come esaltate dalle costrizioni esterne a cui ogni lettera è sottoposta? Certamente, ma solo in parte. Lo stile gramsciano, icastico, ironico, ricco di rimandi suggeriti da una lettura, da un incontro occasionale, il gusto filologico per le radici di una parola o le origini di un sito, già emergevano, nel Gramsci «legale», in quello che egli ha lasciato scritto tra il 1914 e il 1926. Qui la sorpresa, la suggestione di tante divagazioni, spesso sono più grandi perché la notazione «fur ewig», l’episodio bullo, la favola, la descrizione di un paesaggio, il profumo di un fiore e di una stagione sono frammisti a dolentissime note sulle proprie condizioni di salute, sull’efficacia di questa o quella medicina, sull’effetto devastante di un’insonnia sempre meno sopportabile, sui malanni crescenti.

 

PAOLO SPRIANO

Dalla Prefazione di “Gramsci, lettere dal carcere 1” – L’Unità”

Foto: Rete

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