La vera storia di Vitti ‘na crozza

Piccoli “schiavi” nelle miniere di zolfo in Sicilia

 

Qual è la vera storia di Vitti ‘na crozza, una tra le più celebri canzoni della tradizione siciliana? Non è una canzone allegra. Tutt’altro. Il vero significato delle parole ci riporta al mondo delle zolfare, fatto di faticosissimo lavoro e di sofferenza. Un mondo descritto in modo magistrale da alcuni scrittori siciliani: basti ricordare Ciàula scopre la luna, la celebre novella di Luigi Pirandello. Insomma, una canzone che ci ricorda la sofferenza e anche l’ingiustizia di chi passava la maggior parte della propria vita nelle miniere di zolfo della vecchia Sicilia e se aveva la sventura di morire tra le viscere della terra lì restava, sepolto senza nemmeno “un toccu ‘ri campane”.

A raccontare la storia di questa celebre e amara canzone è Sava Favarò, artista siciliana a tutto tondo: scrittrice, giornalista e cantante. In questo caso autrice di un libro – Storia di Vitti ‘na crozza (edizioni Qanat) – che oggi viene presentato al Salone internazionale del libro di Torino

Il testo è il frutto di dieci anni di ricerche. Uno studio attento “per comprendere il vero significato della canzone più popolare e più oltraggiata della tradizione siciliana e che nulla ha da spartire con l’allegro refrain”, come si legge in un comunicato. Il libro contiene in appendice il testo dell’atto unico teatrale Dal ventre della terra, che, grazie alla partecipazione dell’attore Enzo Rinella, della cantautrice Francesca Calamaio e della stessa autrice, sarà in parte rappresentato durante la presentazione del libro.

“Chi ascolta la celebre canzone siciliana Vitti ’na crozza crede che l’allegro motivo sia una sorta di inno alla vita, ma basta prestare attenzione alle sue parole per rendersi conto che si tratta di altro – scrive Sara Favarò  -. Protagonista della canzone è ’na crozza, ossia un teschio. Un teschio che, attraverso il suo racconto, si fa promotore di una forte denuncia sociale, rivolta principalmente contro determinate usanze della Chiesa cattolica di un tempo. La maggior parte delle persone ha sempre ritenuto che il famoso ‘cannuni’ dove si trova il teschio, protagonista della canzone, fosse il pezzo di artiglieria cilindrico utilizzato per fini bellici, e che la canzone si riferisca ad un tragico evento di guerra. Ma così non è!”.

Scrive il professore Francesco Meli dell’Università Iulm di Milano nella prefazione al libro: “La storia narrata ha dell’incredibile. Con intensa indignazione Sara ripercorre l’ostracismo perpetrato dalla Chiesa, incredibilmente cessato solo verso il 1940, nei confronti dei minatori morti nelle solfatare. I loro resti mortali non solo spesso rimanevano sepolti per sempre nella oscurità perenne delle miniere, ma per loro erano precluse onoranze funebri e perfino, insiste il teschio della canzone, un semplice rintocco di campana! La pietas verso i defunti non è assente nella classicità ed oltre ad essere invocata è non raramente riservata perfino ai nemici: in effetti segnala un passaggio cruciale nell’affermazione di una condizione che siamo soliti definire civiltà”.

“La voce del teschio – sottolinea ancora Francesco Meli – implora che qualcuno riservi anche a lui questa pietas, affinché una degna sepoltura, accompagnata da un’onoranza funebre che lo possa degnamente accompagnare nell’aldilà sia in grado di riscattare i suoi peccati e garantirgli una pace eterna dopo un’esistenza di stenti, contrassegnata da un lavoro massacrante in un’oscurità permanente…”.[…]

 

Fonte: https://lavocedinewyork.com/mediterraneo/2015/05/17/la-vera-storia-di-vitti-na-crozza-che-non-e-una-canzone-allegra-parola-di-sara-favaro/

 

Vitti ‘na crozza 

 

Vitti na crozza supra nu cannuni,

fui curiuso e ci vossi spiari,

idda m’arrispunniu cu gran duluri

“murivi senza un tocco di campani”.

.

Si nni eru si nni eru li me anni,

si nni eru si nni eru un sacciu unni.

Ora ca sugnu vecchio di ottantanni,

chiamu la morti i idda m arrispunni.

.

Cunzatimi cunzatimi lu me letto,

ca di li vermi su manciatu tuttu.

Si nun lu scuntu cca lume peccatu

lu scuntu allautra vita a chiantu ruttu.

.

C’e’ nu giardinu ammezu di lu mari,

tuttu ntssutu di aranci e ciuri.

Tutti l’acceddi cci vannu a cantari,

puru i sireni cci fannu all’amuri.

Foto: RETE

 

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