Brigantaggio calabrese: i numeri

 

L’Elenco elaborato dalla prefettura di Cosenza — una vera e propria miniera d’informazioni — ci consente di tracciare, in via preliminare, le coordinate numeriche del fenomeno, nell’arco di tempo compreso tra il settembre del 1860 e il giugno del 1863.

Va rilevato, innanzi tutto, che, contrariamente a quanto affermato dal Massari — per il quale nelle province calabresi il brigantaggio era « frutto d’importazione », a causa dello « stato economico » ch’era a suo dire «più tollerabile » e della condizione sociale delle masse contadine « comparativamente migliore » — il brigantaggio sviluppatosi nella Calabria Citeriore si presenta con una netta connotazione indigena, nel senso che la quasi totalità delle bande operanti sul territorio provinciale era composta da individui nati nella Calabria cosentina.

In particolare, con riferimento ai 740 briganti (veri e presunti) riportati nell’Elenco, si rileva che ad aver dato i natali agli individui sottoposti alla persecuzione sono stati 93 paesi — il 61,58% dei comuni cosentini; e, di conseguenza, su oltre la metà del territorio provinciale venne attuata una vera e propria caccia all’uomo, più marcata nel circondario di Cosenza (con il 50,53%) rispetto ai circondari di Castrovillari (22,10%), Paola (14,74%), Rossano (12,63%).

Se consideriamo, però, il numero dei paesi interessati per singolo circondario, la gerarchia numerica subisce una variazione: al circondario di Cosenza (ancora il più coinvolto, con il 77,41%) seguono quelli di Rossano (66,66%), Castrovillari (51,21%), Paola (46,66%).

Per quanto riguarda i complici — originari da 65 paesi (pari al 43,04% dei comuni cosentini) —, è ancora il circondario di Cosenza (con il 61,54%) a prevalere, di gran lunga, sui circondari di Castrovillari (15,38%), Paola (12,31%), Rossano (10,77%).

Attraverso l’Elenco prefettizio, possiamo anche ricostruire le classi d’età.

Ebbene, relativamente ai briganti, gli individui con un’età compresa tra i venti e i trentasette anni rappresentano il 78,79%; e ciò attesta che determinate fasce, data l’età, erano le più attive. Di 55 briganti (pari al 7,43% del totale) e 41 complici (pari al 16,53%) conosciamo l’estrazione socio-professionale. Entrando nel dettaglio, riferendoci ai briganti, si rileva che gli addetti all’agricoltura — nella duplice articolazione di salariati fissi ed avventizi o giornalieri — prevalgono (con il 54,55%) sugli artigiani (20%), possidenti (7,27%), soldati sbandati e renitenti alla leva (7,27%); mentre il restante 10,91% è ripartito tra guardiani, carbonai, mulattieri.

Per quanto riguarda i complici, s’osserva che non sono più i salariati agricoli (attestati sul 21,95%) ad occupare il primo posto, ma i possidenti che, con il 34,14%, distanziano tutti gli altri, tra i quali fanno spicco tre notai, tre industrianti, due sacerdoti, un medico, un farmacista.

Certo, quest’ultimi dati lasciano intravedere una rete di complicità dal volto prevalentemente borghese. Ma, per l’esiguità degli elementi a nostra disposizione, dobbiamo usare molta cautela nel sostenere, in maniera definitiva, un’affermazione di questo genere. In ogni caso, seppure si possa ipotizzare un livello di connivenza connotato in senso borghese, bisogna subito sottolineare la debole capacità operativa, nella Calabria cosentina, d’un partito borbonico. Che esistessero, in provincia, nostalgici del caduto regime non può essere assolutamente negato, ma che questi avessero la forza d’organizzare ed imprimere una direzione politica al brigantaggio è, senz’altro, dubbio, sia perché — come abbiamo potuto constatare studiando i relativi incartamenti — le reazioni a sfondo legittimistico erano disorganiche (non collegate le une alle altre), sia perché non esisteva « una vera ed efficiente opposizione da parte del clero filo-borbonico » e, in ultima analisi, un partito in grado di suscitare ampi consensi ad una linea di reale opposizione allo Stato unitario. In tal senso, una chiave d’interpretazione è offerta dal Guicciardi, il quale, in un suo rapporto del 1861, così affermava:

La condizione politica della provincia può essere ritenuta abbastanza soddisfacente, ad onta che non manchino persone, le quali, fautrici della caduta dinastia, o mestatori, cercano creare malcontento e fomentare disordine, giovandosi della disposizione e proclività di una parte di popolazione a commettere ladronecci e rapine, ed a seguire chiunque le offra opportunità di saccheggio. Un movimento reazionario, che si volesse tentare coi soli elementi che sono in provincia, non sarebbe quindi temibile.

Per il Guicciardi, pertanto, « un partito legato alla vecchia dinastia era quasi inesistente »; e tali concetti vennero ribaditi in un rapporto indirizzato, il 3 settembre 1862, al generale La Marmora: « […] nei rapporti di sicurezza politica la condizione della provincia non dà largo campo all’azione dello stato d’assedio ».

L’uccisione, avvenuta nell’ottobre del 1862, del capo brigante Domenico Bruno di Cerisano apre uno squarcio sull’atteggiamento dei possidenti di fronte al brigantaggio; e ciò perché nella nota prefettizia è detto: « II Bruno non scorreva la campagna, ma si manteneva latitante, venendo soccorso dai proprietari. Ora protetto dalla famiglia Zupi ».

E una testimonianza d’estremo interesse attraverso la quale è possibile scorgere, seppure in controluce, la protezione accordata dai possidenti ai briganti. In tal senso, un caso assai rilevante è quello legato al barone di San Marco Argentano Luigi Campagna, il quale, ai primi del 1863, venne arrestato e rinchiuso nelle carceri di Cosenza perché « Istigatore, reazionario » e « Corrispondente di briganti ». Il Campagna, l’11 novembre 1864, sarà riconosciuto colpevole del reato di manutengolismo e condannato a dieci anni di lavori forzati.

Certo, i possidenti erano i « naturali alleati delle forze dell’ordine » e, pertanto, desideravano vivamente che il brigantaggio fosse debellato. Ma, per timore di rappresaglie, accordavano ai briganti una serie di favori o di coperture; e quanto ciò fosse una pratica corrente — e ormai consolidata  — non sfuggì al comandante la Divisione territoriale delle Calabrie, il luogotenente generale G. Sirtori, il quale, il 28 settembre 1863, convocò in Catanzaro i proprietari (di fondi e di animali) e gli industrianti delle province di Calabria Citra e Ulteriore seconda allo scopo di formare una « Società di mutua assicurazione contro il brigantaggio». Nel corso della riunione, alla quale parteciparono o aderirono 74 possidenti e industrianti, venne formulato uno statuto di 13 articoli, approvato successivamente dal Ministero dell’interno. L’obiettivo della « Società » doveva consistere, secondo il Sirtori, nell’utilizzare in funzione anti-brigantaggio guardiani armati, scelti « dai proprietarii medesimi fra le persone da loro conosciute, sorvegliati non solo dai singoli proprietarii, ma da tutti i membri dell’Associazione e dagli stessi RR. Carabinieri, sotto la cui vigilanza e dipendenza » sarebbero stati posti. In tal modo, il brigante non avrebbe più trovato « rifugio e mezzi di sussistenza » procurati da cause di « forza maggiore » e dal timore « d’inevitabile vendetta». Di conseguenza, « tolta questa ragione o scusa, e obbligati tutti o a guardarsi o a ricoverarsi nei luoghi guardati, il brigante cacciato dovunque dalla truppa e dalle squadriglie, respinto dai luoghi abitati, se non perisce negli scontri colla forza armata, deve perire di fame, o consegnarsi da sé alla giustizia ».

L’iniziativa del Sirtori, condivisa, con una serie di riserve, dal prefetto di Cosenza, Enrico Guicciardi, venne diffusa, ad opera di quest’ultimo, con circolare del 7 ottobre 1863. Nonostante i buoni uffici interposti dal prefetto, i possidenti ed industrianti della provincia di Cosenza non s’associarono al progetto Sirtori.

Abbiamo, sin qui, parlato di protezione (indotta o volontaria).

Talvolta, possidenti ed industrianti (ma anche esponenti del clero) fecero ricorso, personalmente, ai metodi tipici della lotta brigantesca. È il caso di Francesco ed Antonio Zavarone, di Francesco e Raffaele Bernando (tutti di Montalto Uffugo), arrestati nel novembre del 1862 con l’accusa d’aver costituito, assieme ad altre persone del luogo, una comitiva di cui Francesco Bernando era riconosciuto il capo.

Ancora più esemplare è la vicenda dell’industriante Raffaele Carnevale da Paola, fucilato nell’ottobre del 1862 perché appartenente alla banda capeggiata dal muratore paolano Domenico Panaro. Analoga sorte (la fucilazione) venne riservata, nello stesso mese d’ottobre, al sacerdote di Bucita Saverio Cribari, in quanto « Direttore, manutengolo e corrispondente di molte comitive [Franzese e Bruno] ».

 

FRANCESCO GAUDIOSO

Da “Calabria ribelle” –  Franco Angeli

Foto: RETE

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