PERCHE’ SIAMO STATI CACCIATI DAL PARADISO?

Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, La Cappella Brancacci , chiesa di Santa Maria del Carmine di Firenze

Una rappresentazione particolarmente significativa del rapporto fondamentale tra l’uomo e la libertà è data dal mito biblico dell’espulsione dell’uomo dal paradiso.

Il mito fa risalire l’inizio della storia umana a un atto di scelta, ma fa cadere l’accento sulla peccaminosità di questo primo atto di libertà, e sulla sofferenza che ne deriva. L’uomo e la donna vivono nel giardino dell’Eden in completa armonia tra di loro e con la natura. C’è pace e non c’è alcuna necessità di lavorare; non si pone alcuna scelta, e non esiste né la libertà né la riflessione. All’uomo è vietato mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Egli agisce contro il comando di Dio, infrange lo stato di armonia con la natura di cui fa parte senza però trascenderla. Dal punto di vista della Chiesa, che rappresentava l’autorità, questo è nella sua essenza peccato.

Dal punto di vista dell’uomo, però, questo è l’inizio della libertà umana. Agire contro gli ordini di Dio significa liberarsi dalla coercizione, emergere dall’esistenza inconscia della vita preumana al livello umano. L’agire contro il comando dell’autorità, il commettere un peccato, è nel suo aspetto umano positivo il primo atto di libertà, ossia il primo atto umano.

Nel mito il peccato, nel suo aspetto formale, è l’agire contro il comando di Dio; nel suo aspetto materiale è il mangiare il frutto dell’albero della conoscenza. L’atto di disobbedienza, in quanto atto di libertà, è l’inizio della ragione. Ma il mito parla anche di altre conseguenze del primo atto di libertà. L’armonia originaria tra l’uomo e la natura è spezzata. Dio proclama la guerra tra l’uomo e la donna, e tra la natura e l’uomo. L’uomo si è separato dalla natura, ha fatto il primo passo per diventare umano diventando « individuo ». Ha commesso il primo atto dì libertà. Il mito mette in risalto la sofferenza che deriva da questo atto. Il trascendere la natura, l’essere alienato dalla natura e da un altro essere umano, fa scoprire all’uomo d’esser nudo, gli fa provare vergogna. È solo e libero, e tuttavia è impotente e ha paura. La libertà appena conquistata appare già una maledizione; è libero dalla dolce schiavitù del paradiso, ma non è libero di governarsi, di realizzare la sua individualità.

La « libertà da » non si identifica con la libertà positiva, con la « libertà di ». L’emergere dell’uomo dalla natura è un processo prolungato; in larga misura resta legato al mondo da cui è emerso; continua a far parte della natura: la terra su cui vive, il sole e la luna e le stelle, gli alberi e i fiori, gli animali e le persone a cui è legato da vincoli di sangue. Le religioni primitive portano testimonianza del sentimento di unità con la natura che l’uomo prova. La natura animata e inanimata fa parte del suo mondo umano, o, per dirlo in un altro modo, egli fa ancora parte del mondo naturale.

Questi legami primari bloccano il suo pieno sviluppo umano; impediscono lo sviluppo della sua ragione e delle sue facoltà critiche; gli consentono di riconoscere sé e gli altri soltanto attraverso la sua, o la loro, appartenenza ad un clan, a una comunità sociale o religiosa, e non in quanto esseri umani; in altre parole, bloccano il suo sviluppo in quanto individuo libero, autonomo, produttivo. Ma c’è anche un altro aspetto. Questa identità con la natura, il clan, la religione, dà sicurezza all’individuo. Egli « appartiene », ha radici in un tutto strutturato, in cui occupa un posto indiscusso. Può soffrire per la fame o per la soppressione, ma non soffre di quella pena che è la peggiore di tutte, la solitudine completa e il dubbio.

Vediamo dunque che il processo di crescente liberazione umana ha lo stesso carattere dialettico che abbiamo notato nel processo della crescita individuale. Da una parte è un processo di sviluppo della forza dell’integrazione, di dominio della natura, di sviluppo del potere della ragione umana e di sviluppo della solidarietà con altri esseri umani. Ma dall’altra parte questa crescente individuazione significa crescente isolamento, insicurezza e perciò un dubbio sempre maggiore circa il proprio posto nell’universo, il significato della propria vita; ed oltre a ciò un sentimento sempre più acuto della propria impotenza e irrilevanza di individuo.

Se il processo dello sviluppo dell’umanità fosse stato armonioso, se avesse seguito un certo piano, allora i due aspetti dello sviluppo — la forza e l’individuazione — si sarebbero sviluppati in modo assolutamente parallelo. Invece la storia dell’umanità è una storia di conflitti e lotte. Ogni passo verso una maggiore individuazione minaccia nuove insicurezze. I legami primari, una volta che siano stati recisi, non possono più venir ristabiliti; quando il paradiso è perduto, l’uomo non può più tornarvi.

C’è una sola possibile soluzione produttiva per il rapporto dell’uomo individualizzato con il mondo: la sua attiva solidarietà con tutti gli uomini e la sua spontanea attività, l’amore e il lavoro che lo riuniscono di nuovo al mondo, non mediante legami primari, ma come individuo libero e indipendente.

Tuttavia, se le condizioni economiche, sociali e politiche, da cui dipende l’intero processo dell’individuazione umana, non offrono una base per la realizzazione dell’individualità, nel senso che abbiamo appena detto, e se al tempo stesso gli individui hanno perduto quei legami che davano loro sicurezza, questo sfasamento fa della libertà un peso insopportabile. Essa allora si identifica con il dubbio, con un genere di vita che manca di significato e di orientamento. Sorgono potenti tendenze a fuggire da questo tipo di libertà e a rifugiarsi nella sottomissione o in un genere di rapporto con l’uomo e con il mondo che prometta sollievo dall’incertezza, anche se priva l’individuo della sua libertà.

Da FUGA DALLA LIBERTA’, di Erich Fromm – Edizioni Comunità

FOTO: Rete

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