Che cosa troviamo nel mondo divino di Roma?

Un legno o un bastoncino di bronzo o argento alla cui estremità era attaccato un ciuffo di crine, Serviva per aspergere e benedire gli animali o le are.

Innanzitutto, un certo numero di dei dai contorni relativamente netti, onorati separatamente, ma senza filiazione e senza nozze, senza avventure né scandali, senza rapporti di amicizia o di ostilità: senza mitologia, cioè; alcuni, pochissimi, palesemente i più importanti, sono presenti di frequente nella vita religiosa; gli altri sono distribuiti per i mesi del calendario e i quartieri della città, attualizzati una volta all’anno da un sacrificio, talvolta (è il caso degli dei di luglio) senza che neppure si sappia qual servizio possano rendere.

Intorno a loro, nello spazio e nel tempo romani, un numero illimitato di punti o di momenti hanno rivelato e continuano a rivelare all’esperienza che essi celano un potere entro di sé: i romani dunque si sentono circondati da persone segrete e gelose del proprio segreto, deste, favorevoli o avverse alle imprese, irritabili o servizievoli, — persone alle quali i romani non sanno neppure che nome attribuire.

Infine, si intravede una quantità di piccoli gruppi, di piccole compagnie strettamente solidali, ciascun membro delle quali è poco più di un nome: un nome di agente, che lo imprigiona nella definizione minuta di una funzione, in un atto o in una frazione di atto; a dire il vero cedeste entità compaiono di sfuggita nelle letterature ma gli antiquari, e specialmente Varrone, ne avevano tracciato degli elenchi, di cui si impadronì la polemica cristiana.

Queste tre categorie di esseri in realtà non sono nettamente distinte quanto le parole precedenti lascerebbero intendere: parecchi fra gli stessi dei della prima categoria non hanno quasi altra personalità che il loro nome – talvolta un nome collettivo -, altra esistenza che il breve culto loro attribuito. Così, penetrandosi vicendevolmente, quelle categorie conferiscono al pantheon romano l’aspetto di un mondo d’ombre pressoché immobili, di una massa crepuscolare da cui solo poche divinità, e pur sbiadite, sono riuscite a spiccare, mentre le altre, tutte le altre, abortite, fermate nella crescita, si limitano e si limiteranno sempre a povere e rare manifestazioni.

Non si sfugge a questa singolare impressione. Abituati alle mitologie opulente della Grecia, dell’India, di tanti popoli chiamati barbari, fatichiamo a immaginare che una teologia si separi a tal punto dalla favola, che delle anime pie si accontentino di aride nomenclature e di una dottrina così limitata che poco dice allo spirito e nulla ai sensi. Sembra che ciò debba dipendere da un’infermità congenita. Proviamo la tentazione di ammettere che la società romana, la quale diede prova prestissimo di grande talento nel diritto e nella politica, in materia religiosa fosse colpita da un’impotenza quasi totale a creare, a concepire, a esplorare, a organizzare.

Tal deduzione sarebbe paradossale e disastrosa per gli studi. Prima di rassegnarci ad essa, dovremo andare oltre l’impressione, esaminare ad uno ad uno i fattori che la determinano, cercare le ragioni per cui un popolo altrimenti normale e anzi ben dotato soddisfece i suoi bisogni religiosi in forme così austere invece che nelle forme ricche e brillanti di cui — come provò più tardi — non era certo più incapace di altri.

 

GEORGES DUMEZIL

Da “La religione romana arcaica”,  Rizzoli

Foto: RETE

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