Come è stata smantellata la sanità pubblica italiana e chi è stato

 

Ci hanno rubato la salute. È dovuta servire una pandemia per rendersene conto. Per vedere la forbice che solo negli ultimi dieci anni ha tagliato senza freni la sanità, la spesa pubblica. Quello che per anni si è chiamato Stato sociale e che ora che sta sparendo. Lo chiamiamo welfare, magari in inglese l’evanescenza si è vista meno.

Lungo la scia di sprechi, inefficienze, corruzione abbiamo visto scomparire l’articolo 32 della Costituzione, quello che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Dissolto sotto la colonna di numeri che mostrano il peso del sistema sanitario nazionale deturpato da anni di definanziamento.

I numeri

Le stime le offre la Fondazione Gimbe, che ha lo scopo di promuovere e realizzare attività di formazione e ricerca in ambito sanitario – ha pubblicato un rapporto intitolato “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale”, che analizza alcuni aspetti della «crisi di sostenibilità» del nostro Ssn.

Al sistema Sanitario nazionale negli ultimi 10 anni sono stati sottratti 37 miliardi (25 solo nel 2010-2015), mentre è aumentata la spesa verso la sanità privata, che però si rivolge a prestazioni più remunerative e mostra tutti i suoi limiti in caso di emergenza sanitaria. Scompaiono così i posti letto, quelli che a fatica in queste settimane cerchiamo di improvvisare, ricostruire, inventare come se fossimo sul campo di guerra.

A confermarlo è anche il “Rapporto Sanità 2018 – 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale” del Centro Studi Nebo. I numeri presentano la misura esatta dell’emergenza: dai 530.000 posti letto del 1981 (di cui 68 mila dedicati all’area psichiatrica e manicomiale) ai 365.000 del 1992, dai 245.000 del 2010 fino ai 191 mila del 2017, ultimo dato disponibile.

In rapporto al numero di abitanti, siamo passati da 5,8 posti letto ogni mille abitanti del 1998, ai 4,3 nel 2007 ai 3,6 nel 2017. Stando ai dati del ministero della Salute, rielaborati da Anaao Giovani (il sindacato dei medici), nel 2010 l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.165 istituti di cura, di cui il 54% pubblici e il 46% privati, oggi il numero è sceso a mille unità, ma a diminuire sono state di più le strutture pubbliche (che ora sono il 51,8% del totale) rispetto alle delle cliniche private accreditate (48,2%). Queste ultime dislocate soprattutto in Lazio (124), Lombardia (72) e Sicilia e Campania (58).

La forbice dei governi invece del bisturi

Siamo sull’orlo da tempo e adesso guardiamo il precipizio, l’emergenza coronavirus ci ha aperto gli occhi. Pur non volendo cadere nel tranello di assegnare ad altri – peggio che mai ad un solo governo – compiti, colpe, responsabilità, negli ultimi anni due sono state le grandi riforme di contenimento della spesa sanitaria del 2012 (governo Monti) e di quelli a venire fino al governo Conte.

Sotto la spinta dell’emergenza economica, in pieno clima da “spending review”, il governo Monti decise di usare l’accetta e imporre un taglio orizzontale del 5% delle uscite per tutte le Asl e per tutti gli ospedali (i tagli sono stati imposti con le manovre finanziare 2011-2012 e con la legge 65 del 2012 della “spending review”). Una mossa che sarebbe andata bene se l’Italia della sanità fosse una, unita e omogenea. Ma così non è, il provvedimento ha avuto un effetto boomerang, penalizzante per i distretti già sottofinanziati e inefficienti, incapace di eliminare lo spreco in quelli più ricchi.

Tutto è andato a pesare direttamente sui cittadini: prima conseguenza dell’idea partorita da Monti il taglio di 7389 posti letto ospedalieri, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Lazio. Allo stesso modo il tasso di ospedalizzazione, cioè il numero di ricoveri medio annuale per 100 mila abitanti, fu abbassato da 180 a 160.

Sono arrivati poi i governi Letta, Renzi e Gentiloni che non hanno introdotto alcuna inversione di tendenza per risollevare le sorti del sistema sanitario. Durante l’operato dell’ex sindaco di Firenze va registrata la legge di Stabilità 2015, la quale chiese alle Regioni 4 miliardi di contributo alle casse statali. Queste, non sapendo da dove prendere i soldi decisero di rinunciare all’aumento di due miliardi di trasferimenti per le spese sanitarie che lo stesso Renzi aveva promesso.

I tagli succeduti nel corso degli anni hanno riguardato anche le spese relative ai dispositivi sanitari di protezione. La citata spending review impose ad esempio il passaggio dal 5,2% del totale del finanziamento del sistema sanitario nazionale a carico dello Stato nel 2012 al 4,8% del 2013, al 4,4% del 2014 e così via.

L’ultima stangata è arrivata dal governo Conte con l’introduzione di Quota 100. Un dossier intitolato “La spending review sanitaria”, risalente allo scorso 4 marzo e pubblicato dagli uffici della Camera sottolinea come questo provvedimento abbia “acuito la grave carenza di personale, rischiando di compromettere l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza”.

La scomparsa dei camici bianchi

I medici, insomma. […]. L’eco di allarme viene da lontano. Siamo nel 2018 il governo gialloverde (M5s e Lega) provoca un enorme pasticcio negli ospedali con l’introduzione di quota cento per il pensionamento anticipato di chi ha 62 anni di età e 38 di contributi. È sempre il sindacato dei medici Anaao-Assomed a dire: state sbagliando.

Lo fa con uno studio in base al quale entro il 2023, tra medici e dirigenti sanitari, andranno a casa 70 mila dipendenti, sugli attuali 100 mila e 500. L’esodo è sotto gli occhi di tutti si ottiene sommando le 45 mila uscite maturate grazie alla legge Fornero con le 25 mila stimolate da quota 100. C’è l’allarme ma anche una proposta: «È urgente aprire una stagione di assunzioni nella sanità, eliminando il blocco della spesa per il personale introdotto nel 2010 dal governo Berlusconi-Tremonti». Inascoltata. Non una volta sola.

Il 23 giugno 2019 il sindacato ci riprova: «Negli ospedali, per il blocco del turnover, mancano 8 mila specialisti, destinati a salire a 17 mila entro il 2025». La toppa compare nel Mille proroghe ed è una norma del Patto per la salute: consente di mettere sotto contratto in ospedale anche i laureati in medicina specializzandi già dal terzo anno, a metà percorso. Criticata per l’inesperienza di molti giovani che vengono letteralmente buttati in corsia a salvare vite, ma inevitabile allo stato attuale.

Il dimezzamento

Ancora numeri per dare la misura del disastro, ce li fornisce lo studio Anao-Assomed pubblicato il 4 febbraio 2020: nel 2010 il SSN disponeva di 244.310 posti letto per degenza ordinaria (acuti e post-acuti), di cui il 71.8% (175.417 posti letto) erano in carico al pubblico ed il 28.2%(68.893 posti letto) al privato di cui il 21% nelle strutture private accreditate, 21.761 posti per day hospital, quasi totalmente pubblici (91%) e di 8.230 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici (80%).

A livello nazionale erano disponibili 4,1 posti letto ogni 1.000 abitanti, in particolare i posti letto dedicati all’attività per acuti erano 3,5 ogni 1.000 abitanti. Nel 2017, il numero degli Istituti di cura è risultato essere in calo (1.000), con una modifica della distribuzione totale: gli Istituti di cura Pubblici (Aziende Sanitarie locali, Aziende Ospedaliere ed altre tipologie di Ospedali Pubblici) rappresentavano il 51.8% mentre le strutture private accreditate il 48.2%.

La Regione con il maggior numero di strutture private accreditate risultava essere il Lazio con 124 cliniche private, seguita dalla Lombardia con 72 strutture, quindi Sicilia e Campania con 58 strutture private.

Il SSN disponeva di 211.593 mila posti letto per degenza ordinaria (acuti e post-acuti) di cui il 69.5% (147.035 posti letto) era in carico al sistema sanitario pubblico mentre il 30.5% (64.558 posti letto) al privato di cui il 23,3% La regione con il maggior numero di posti letto era la Lombardia con 8.384, seguita dal Lazio con 7.168, quindi dalla Campania con 5.347. A livello nazionale erano disponibili 147.035 posti letto per acuti con un rapporto di 2.93 posti letto ogni 1.000 abitanti e 64.558 posti letto per post-acuti con un rapporto di 0.57 posti letto per mille abitanti.

Il sistema sanitario “nazionale” non esiste

C’è inoltre un non detto nella leggenda del “miglior sistema sanitario d’Europa”. Ed è nella sua mitizzazione. L’Italia nella sanità non è uno Stato unitario. Il servizio sanitario nazionale ricorda una cartina pre-Unità d’Italia con stati e staterelli, piccole repubbliche e gran ducati. Infatti, nonostante le due grandi riforme del 1992-1993 e del 1999, nonostante il tentativo, possiamo definire fallito, di attuare il federalismo, non esiste una sanità pubblica italiana.

Ne esistono centinaia. Tante quante sono le regioni e le 225 aziende sanitarie locali in cui sono divise, e le 1488 strutture da esse governate che erogano prestazioni ai cittadini tra ospedali, case di cura, ambulatori ecc. Ognuno fa come gli pare, segue logiche politiche e di spesa autonome, affida arbitrariamente appalti. Spesso senza gara pubblica.

 

Di Simone Alliva

Fonte: https://www.esquire.com/it/news/attualita/a31937377/sanita-italiana-tagli-coronavirus/

FOTO: Rete

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