San Nilo e il monachesimo italogreco.

Domenichino, La costruzione dell’Abbazia di Grottaferrata

 

[…] Dalla metà del sec. X agli inizi dell’XI, va sorgendo nell’Italia meridionale un movimento che si ricollega all’antica e persistente tradizione locale del monachesimo bizantino, ivi impiantato da secoli. Simile tradizione ci può spiegare come la stessa corrente eremitica camaldolese non abbia potuto espandersi in tali regioni più tenacemente attaccate, per un complesso di antichi e nuovi fattori religiosi e politici, alla tradizione orientale. Ad ogni modo, i contemporanei movimenti monastici di S. Romualdo nel centro e nel nord e di S. Nilo di Rossano nel sud possono in parte giustificare la frequente espressione di «crisi del cenobitismo nel sec. XI». Con questa suole essere designato il secolo che vide anche in Italia, in reazione alla decadenza del secolo anteriore e sia pure con le caratteristiche proprie […], la diffusione della riforma cluniacense, non insensibile neppur essa, a partire da Pietro il Venerabile, al richiamo della vita eremitica. Sono queste senza dubbio le principali correnti eremitiche o rigoristiche che percorrono la Penisola nell’epoca pregregoriana, destinate però a raggiungere un’influenza più profonda ed estesa specialmente in seguito.

Ben poco ci è noto dell’antica organizzazione monastica nei territori bizantini dell’Italia meridionale anteriormente all’epoca di S. Nilo, anche per il prevalente indirizzo eremitico seguito in tali piccole fondazioni, come testimoniano le laure e le cripte pugliesi. È certo però che il monachesimo italogreco venne incrementato nei secoli dell’alto Medio Evo dalle successive correnti bizantine accompagnatesi alla conquista giustinianea (sec. VI) e all’esodo di monaci orientali profughi per l’invasione persiana (sec. VII) o per la persecuzione iconoclasta da parte degli imperatori d’Oriente (sec. Vlll). Quando tale persecuzione ebbe termine, cominciarono a diffondersi tra i monaci italo-greci gli scritti e la disciplina monastica di S. Teodoro Studita, che fornì a quei monaci, fino ad allora conducenti vita eremitica, anche le norme degli uffici liturgici.

Inoltre, già l’invasione araba in Sicilia nell’831, se non annientò completamente le preesistenti fondazioni monastiche, indusse però molti monaci ad esulare nella vicina Calabria, ove si stabilirono intere comunità siracusane e taorminesi. La Calabria diventa in tal modo una nuova Tebaide, debitrice a codesto movimento migratorio specialmente dalla Sicilia orientale della sua prima grande fioritura monastica. Dalla metà del sec. IX alla metà del sec. X, S. Elia di Enna, il suo discepolo S. Elia di Reggio detto lo Speleota († 956), i Santi Cristoforo, Saba e Macario, giungendo dalla Sicilia in preda agli Arabi e alle carestie, si fanno fervidi promotori della vita monastica in Calabria ed in Lucania. Dalla zona di Reggio il centro d’irradiazione si sposta più a nord, localizzandosi nella famosa eparchia monastica del Mercurion, tra Orsomarso, Aieta, il fiume Lao ed il mare, nucleo monastico la cui fama di santità e di dottrina valicherà presto i confini della Calabria per diffondersi anche in Oriente.

Ormai nella regione calabra le celle eremitiche andavano facendo posto a veri e propri cenobi passando per lo stadio intermedio delle laure: e dalla Calabria verranno i restauratori ed i riorganizzatori della vita monastica in Sicilia dopo l’occupazione normanna, alla metà del sec. XI. In particolare al Mercurion si sono formati o hanno dimorato tutti i grandi monaci italo-greci di quell’epoca, compreso colui che riassumerà in sé e diffonderà anche fuori della Calabria la vigorosa e fiorente tradizione ascetica locale, S. Nilo.

Il più cospicuo rappresentante dell’indirizzo monastico bizantino in Italia nacque a Rossano calabro verso il 905. Abbandonata la sposa, si ritirò, per divina ispirazione, nei monasteri della regione del Mercurion governati da Giovanni, Zaccaria e Fantino presso cui Nilo, il quale fino ad allora aveva portato il nome di Nicola, stabilì la propria dimora. Al fine di troncare definitivamente le relazioni con il mondo, egli prese l’abito fuori della regione sottoposta al dominio bizantino, nel monastero di S. Nazario, ove già si estendeva la giurisdizione dei principi di Salerno (a. 940). Trascorso un breve periodo in aspra penitenza, Nilo fece ritorno al Mercurion, «tutto pieno di Spirito Santo e di fede», fino a quando, acceso da un sempre più ardente desiderio di perfezione, prese ad abitare poco lontano dai monasteri nella spelonca di S. Michele, trascorrendo il tempo tra la preghiera, la penitenza e lo studio della S. Scrittura e dei Padri. S. Bartolomeo il Giovane, suo discepolo e biografo, ci ha tramandato una descrizione particolareggiata dell’austero tenor di vita condotto da S. Nilo durante questo suo periodo di vita eremitica, in cui rinnovò le prove e le vittorie degli antichi padri del deserto.

Le incursioni saraceniche lo costrinsero a stabilirsi, nel 950, in una sua antica proprietà dedicata a S. Adriano, presso Rossano, a breve distanza da S. Demetrio Corone, ove l’affluenza di discepoli lo indusse a costruire un monastero di cui elesse primo abbate il B. Proclo da Bisignano. A Rossano riaperse l’antico monastero femminile di S. Anastasia, corrispondente forse all’odierna chiesa di S. Marco, mentre ormai la sua carità ed il suo spirito profetico lo rendevano venerato e ricercato dagli umili e dai potenti. Dopo aver rifiutato l’arcivescovado di Rossano ed aver predetto la completa invasione delle Calabrie da parte dei Saraceni, i quali non di meno gli rilasciarono, in segno di stima, alcuni suoi monaci fatti prigionieri, giunse nella Campania, ottenendo dall’abbate di Montecassino Aligerno il monastero di Valleluce: in quella occasione, dal monte di S. Benedetto tutta la comunità gli era venuta incontro con i sacri paramenti ricevendone grazie e consolazioni. Quanto grande fosse poi la venerazione di S. Nilo verso S. Benedetto —• altro segno dell’universalità d’ideali del monachesimo medievale e della sua solidarietà pur in forme esternamente a volte tanto diverse — lo prova l’ufficio da lui composto in onore del grande Patriarca ed il canto delle vigilie notturne, insieme con i suoi sessanta monaci, presso il sepolcro del Santo. Memorabile pure la profezia sulla triste fine dell’abbate cassinese Mansone, indegno successore del prudente Aligerno, come anche l’ascendente esercitato su S. Adalberto di Praga, da S. Nilo indirizzato al cenobio romano dei SS. Bonifacio e Alessio sull’Aventino.

Un desiderio di vita più solitaria e disagiata lo spinge, dopo un quindicennio di soggiorno a Valleluce a fondare il nuovo monastero di Serperi nelle vicinanze di Gaeta e la misericordia verso gli infelici lo fa intervenire a favore del suo concittadino Giovanni Filagato, abbate di Nonantola e vescovo di Piacenza, antipapa Giovanni XVI; in quell’occasione S. Nilo accettò il monastero dei SS. Vincenzo ed Anastasio alle Tre Fontane. In penitenza degli eccessi compiuti sull’antipapa, verso il 1000 Ottone III in pellegrinaggio espiatorio al Monte Gargano visitò S. Nilo il quale, sentendosi chiedere che cosa desiderasse, rispose che nulla gli stava a cuore che la salute dell’anima di lui. L’imperatore, che avrebbe voluto nel suo Impero una fondazione di S. Nilo, appena arrivato a Roma, secondo l’ammonimento del Santo, morì. Poco dopo morì pure il B. Stefano, il fedele ed umile compagno del Santo. Il timore di una indesiderata popolarità indusse nuovamente S. Nilo ad abbandonare la regione di Gaeta e a spingersi nella zona di Tuscolo, prendendo prima dimora nel monastero di S. Agata e poi, con il permesso del conte Gregorio I di Tuscolo, fondando il monastero di Grottaferrata ove morì in quel medesimo anno 1004. Qualche decennio dopo vi si ritirava il papa Benedetto IX, morendovi santamente nel 1055.

Favorita e dotata dagli immediati discendenti del conte Gregorio, la badia di Grottaferrata estese i propri possedimenti anche fuori del Tuscolano, sicché nel secolo successivo (a. 1131) l’abbate, a capo ormai di un vasto feudo, venne eletto Barone di Rossano dal Re Ruggero di Sicilia. Nel 1163 le guerre tra Romani e Tuscolani costrinsero i monaci a rifugiarsi a Subiaco, donde poterono ritornare a Grottaferrata verso la fine del secolo; da tale epoca ha inizio, come negli altri monasteri greci d’Italia, un processo di decadenza del rito greco sempre più aggravatasi, per la mescolanza di elementi latini, fin verso la fine del Medio Evo. Scarse le notizie sulla primitiva costruzione del monastero; la chiesa, dedicata alla Vergine da S. Bartolomeo il Giovane di Rossano (+ 1065), discepolo e terzo successore di S. Nilo nel governo della badia, fu consacrata da Giovanni XIX nel 1024, periodo al quale risalgono i superstiti mosaici ed il campanile.

L’importanza dell’opera di S. Nilo e la sua efficacia duratura, al di là delle sue stesse fondazioni, consiste nel nuovo vigore impresso al monachesimo italo-greco il quale potè inserirsi in maniera più vitale nella stessa tradizione religiosa latina ed italica, abbandonando in gran parte l’osservanza eremitica, mai però del tutto estinta presso codesti monaci, divenuti strumento importantissimo di cultura e di civiltà per le popolazioni contrastate  tra i dominii longobardi, bizantini, arabi, normanni. Ad un’intensa vita ascetica i centri monastici italo-greci, retti in genere dalla Regola di S. Basilio, unirono infatti una splendida attività culturale in ogni campo delle scienze sacre e profane, lasciando una traccia profonda nell’agiografia, nell’innografia, nella filologia, nella trascrizione e nell’ornamentazione dei codici, dispersi poi in ogni regione d’Italia e d’Europa. Al fascino irradiato da questa fiorentissima corrente monastica non sfuggono neppure gli imperatori di Germania: verso la fine del sec. X l’imperatrice Teofano, moglie di Ottone II, conduce con sé in Germania un gruppo di monaci greco-calabri guidati da S. Gregorio di Cassano che fonda presso Aquisgrana, a Buftscheid, un monastero destinato a diventare un centro di cultura ellenistica nel cuore dell’Europa.

 

GREGORIO PENCO

Da “Storia de monachesimo in Italia” – E.P.

Foto: RETE

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